La recente iniziativa dei giovani di Coldiretti, coadiuvati da ricercatori universitari, di monitorare l’età media della classe dirigente del nostro Paese conferma ciò che, in realtà, era noto da tempo.

Che, cioè, ci troviamo in una società bloccata, chiusa a riccio su se stessa, alla strenua difesa di caste, corporazioni, mondi chiusi. Non siamo, in poche parole, in una società aperta, come la chiamava Popper, ma in una società vecchia, preoccupata solo di garantire i garantiti, scambiando privilegi per diritti acquisiti.



Proviamo a sintetizzare i risultati della ricerca: l’età media generale sfiora i 60 anni. Ma sappiamo che le banche sono in mano a 67enni, la stessa età dei vescovi della Chiesa cattolica; che i ministri tecnici hanno, sempre in media, 64 anni, i docenti universitari 63, i dirigenti statali 61, i titolari delle imprese 59, i sindacalisti 57, come i senatori, i deputati 54, i manager delle grandi aziende 53, come gli insegnanti, e gli imprenditori agricoli 47. Come dire: il Paese è nelle mani di persone non più giovani, non in grado, quindi, di capire le nuove esigenze del nostro mondo globalizzato.



Se in passato, ce lo dovremmo ricordare, i nostri nonni ed i nostri genitori hanno sacrificato la loro vita per dare un futuro ai figli, oggi rischiamo di consegnare, oltre ai tanti debiti pubblici e privati, solo delle illusioni. E a ben poco valgono i miraggi tv, come modelli di vita. Perché poi la scorza dura della realtà impone dei dolorosi risvegli.

Ricordiamo solo che Bill Gates ha fondato Microsoft a vent’anni, Steve Jobs ha fondato Apple a 21, Page e Brin ne avevano 25 quando hanno dato vita a Google. I giovani come linfa e speranza di una qualità della vita che il nostro mondo di adulti ha reso quasi impraticabile, per il dominante piccolo cabotaggio: il politichese, il sindacalese, lo scolastichese, il burocratese, l’occorrese, ecc.



Mi viene da riprendere, proprio a commento di questa situazione, una vecchia lettera che Pierluigi Celli, direttore generale della Luiss ed ex direttore della Rai, scrisse anni fa al proprio figlio: “Figlio mio, stai per finire la tua università. (…) Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio. (…) Ti conosco abbastanza bene per sapere quanto sia forte il tuo senso della giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme. (…) Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di (…) carriere feroci fatte su meriti inesistenti. (…) Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti… Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. (…) Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché. (…) Preparati comunque a soffrire. Con affetto, tuo padre”.

Parole dure, che sembrano negare una benché minima speranza. Ma parole che fanno pensare e che io vorrei interpretare non in termini ultimativi, ma come la denuncia di un rischio mortale: l’inedia (spirituale, intellettuale, esistenziale), l’indifferenza, la mediocrità come valore dominante nella politica, nella vita relazionale, nel mondo economico, nella ricerca dei valori chiave della vita.

I giovani italiani sono oggi penalizzati da una società bloccata. Piegata su se stessa. Incapace di valorizzare tutto il proprio capitale umano. Incapace di riconoscere il merito e premiare i molti talenti.

Ai nostri giovani migliori possiamo offrire solo la fuga verso altri Paesi? Verso, cioè, realtà capaci di non fermarsi all’anagrafe, a considerare l’anzianità di servizio come unico valore nel lavoro? Vorrei solo richiamare, invece, la comune responsabilità. Al di là di destra e sinistra, di questo o quel politico, del gioco della reciproca demonizzazione. Una responsabilità che domanda impegno personale, anzitutto, per uno stile di vita essenziale e centrato sul merito, disposto all’auto-aiuto solidale, ma senza scorciatoie assistenzialiste.

Ma la nostra responsabilità ci dice anche qualcos’altro: se i giovani ne hanno l’opportunità, ben venga lo studio od un periodo di lavoro all’estero. Per allargare lo spettro, ma anche per un ritorno  di qualità nella nostra Italia, dopo qualche tempo. L’acqua fresca non fa mai male, perché costringe gli stagni delle varie caste a ripulirsi dal fetore comportamentale prodotto dalle abitudini consolidate.

Quale futuro, in fondo, noi siamo in grado di consegnare ai nostri figli, ai giovani d’oggi? Reali pari opportunità, o frammenti, meglio, briciole di libertà-responsabilità?