Davanti alla tragedia di Brindisi si è sperato per una manciata di minuti che si trattasse di un terribile, impensabile incidente. A tanto siamo arrivati, a impetrare che lo strazio di tanti ragazzi uccisi e gravemente feriti si possa imputare a un errore fatale, a un’imponderabile calamità. Non ci si capacita ad immaginare una mano d’uomo, che posiziona gli ordigni, aziona il timer, forse un telecomando, pensando ai volti sorridenti che di lì a poco si sarebbero avvicinati ansimanti alla cancellata, appoggiati a quel muretto, per controllare gli ultimi compiti, combinare il pomeriggio, contare le ore di quest’ultimo scampolo di scuola, nell’aria d’estate.
Quella sera poi, avrebbero avuto una sfilata: perché la maggior parte di quegli studenti erano ragazze, ragazze che avrebbero dato corpo, davanti a mamme e fidanzati, alle loro idee di mises e modelli, ai loro sogni, cioè entrare nel mondo sfavillante della moda, calcare una passerella, firmare per un atelier di grido, o più prosaicamente lavorare per una sartoria, magari a Milano, e passeggiare ogni tanto in via della Spiga. Una sfilata di facce attonite e contrite passa mesta davanti al muretto che ha ascoltato tante chiacchiere e assorbito tante speranze, pettegolezzi, amori, vita; spettatori sconvolti tenuti a distanza dalle forze dell’ordine che instancabili misurano, studiano, fanno segni per terra, fotografano, rilevano. Davanti ai brandelli di zaini e indumenti colorati che erano stati scelti con cura, la mattina, perché la prima sfilata, per chiunque abbia 16 anni, è per i compagni e le compagne di classe.
Chissà cosa si aspettava Melissa, da questo sabato in cui normalmente avrebbe preferito andarsene al mare, se non fosse per quell’evento, la sera, e l’eccitazione scacciava il sonno della trasferta in autobus, all’alba, come tutti i giorni. Melissa che tutta nera nera è stata portata via subito, mentre urlavano le sirene, coprendo le grida della sua amica, che coi capelli bruciati piangeva soltanto il suo nome, a chi le dava soccorso. Melissa, dolce come il miele. Forse non ha capito, non ha sofferto troppo, attutito ogni suono e ogni dolore mentre si abbandonava al per sempre, nella corsa folle e inutile all’ospedale.
Ma Veronica, come sta passando le sue ore, i minuti, che tormento, che lampi di orrore nella sua mente, mentre lotta con la morte, e non sa se e come ritroverà il suo viso pulito, la sua pelle fresca di ragazzina che ci sorride dalle pagine facebook. Melissa e Veronica sapevano che c’era la mafia, il diverso nome che ha nella loro terra. Sapevano, perché brave ragazze, e attente, e partecipi a scuola, una scuola d’eccellenza nell’educazione alla legalità, dedicata a due nomi importanti. La scuola che vuol dire tanto, in un sud dove sono le scuole i baluardi residui per chi vuol costruirsi un futuro, e liberarsi dai lacci di una criminalità minacciosa e ricattatoria, che obbliga alla rassegnazione, all’omertà.
Melissa e Veronica, come i loro compagni, sapevano che nel loro paese l’altra settimana c’era stato un attentato, per fortuna fallito, c’erano state retate, volti intravisti o noti portati via con le sirene, sapevano che questo sabato tutta Brindisi avrebbe partecipato a una manifestazione di tanta gente venuta da fuori, per dire no alla mafia, no alla paura. Dio non voglia che l’assassino che ha colpito la loro scuola non avesse di mira proprio loro, che sul loro autobus, su quello successivo, arrivato miracolosamente in ritardo, non cercassero la vendetta su un figlio, un nipote, di qualche pentito. Francesca Morvillo, Giovanni Falcone: non erano ancora nati, i ragazzi di Brindisi, quando i loro nomi sono stati colpiti per sempre nella memoria buona del nostro Paese, e da allora sono simboli e bandiere, per chi crede nella giustizia e nella libertà, nel coraggio di essere testimoni.
Si possono offendere, vituperare i simboli, si possono strappare e incendiare le bandiere. I simboli si portano nella testa e nel cuore, e si cuciono bandiere nuove. I ragazzi di Brindisi sanno che tocca a loro innalzarle, tocca a loro far vincere i buoni. Certo, ci sono in ogni tragedia le sfilze di dichiarazioni, quando mancano le notizie si cercano le opinioni, e ci appaiono tutte un po’ scontate, banali, già scritte. Ogni microfono, ogni telefonata alla radio e alla televisione un “buongiorno…”. Buongiorno onorevole, buongiorno ispettore, buongiorno professore, o reverendo…”.
Ma quale buongiorno. Ci è voluto lo slancio di sincerità commossa di Nichi Vendola, di solito così guascone, così ridondante, per smozzicare con la zeppola ancora più marcata, “non è un buon giorno”. Piangendo, com’è giusto fare. Piangendo, come i compagni dei feriti, che si chiedono soltanto perché. Perché. Possano questi ragazzi avere adulti forti e teneri con il loro fragile e disperato sbandamento, possano senza sosta, senza tentennamenti dare in fretta una risposta e una pena agli autori di una strage voluta. Perché se questi ragazzi perdono la fiducia, e la speranza del bene comune, se ci disprezzano come deboli e incapaci, come sarà il loro e nostro domani?