Sei morti, più di cinquanta feriti, circa tremila persone costrette ad abbandonare le proprie case. Il bilancio del terremoto che domenica notte ha colpito l’Emilia Romagna, con una successione di ben 75 scosse, è sempre più pesante. I danni economici al momento sono incalcolabili, tra case rase al suolo, chiese ridotte in macerie e spettrali campanili dagli orologi fermi alle 4.04. Nelle provincie di Ferrara, Modena e Bologna lo scenario che si presenta è apocalittico, apparentemente senza speranza.
Eppure c’è chi, pur nel dolore di aver perso tutto, senza nascondere l’angoscia con la quale si contano i danni e si pensa a quanto sarà difficile ricominciare, riesce a intravedere il senso di ciò che accade.
È la storia di Alberto Malagoli, imprenditore di San Felice sul Panaro, nel modenese. Il suo capannone, dotato di un forno di verniciatura di 100 metri quadri, a Massa Finalese, oggi è completamente distrutto. Un brutto colpo per un’azienda familiare che dà lavoro a 11 persone.
«Non so quando potremo rimetterci al lavoro – racconta Malagoli a IlSussidiario.net –. Alcuni miei amici mi hanno voluto accompagnare nel primo sopralluogo: le travi di cemento si sono sfilate dai pilastri, i muri hanno delle crepe profonde, le pareti sono rigonfiate. Entrare dentro è un rischio troppo grande. Fortunatamente, casa mia, che è a 5 chilometri di distanza, è salva. Le crepe non sono strutturali perché l’abbiamo costruita nel ’96 secondo criteri antisismici. Il lavoro però è a rischio, inutile negarlo. Non so ancora come farò con i nostri clienti, con le banche… Anche perché al nostro principale partner commerciale, con cui era in atto una sinergia molto importante, è andata anche peggio. Da lui infatti non è rimasto in piedi nulla…».
Cos’ha pensato quando ha visto che il terremoto aveva distrutto il frutto di tante fatiche?
Ho avuto subito la percezione che nella mia vita stava accadendo qualcosa di importante. “Siamo nelle mani di Dio”, ho pensato. Davanti a un fatto del genere ho capito che le tue forze non bastano, che non puoi fare niente.
Ma non può finire tutto così. Vede, di momenti duri ne abbiamo passati tanti…
A cosa si riferisce?
Nel 2009 era bastata una piccola scintilla, forse un corto circuito, a far divampare l’incendio. Il capannone era pieno di solventi e, grazie all’intervento di un passante, evitammo il peggio. Poi con fatica ci rimettemmo in piedi.
Certo, questa volta sarà ancora più dura, ma sono sicuro che quello che sta succedendo, accade per me. E che, in fondo, è positivo.
Come fa a dire una cosa del genere?
L’ho ripetuto anche a mia figlia, che solitamente sembra impassibile davanti a quello che succede. Questa volta, vedendo tutto sottosopra, è scoppiata in lacrime. Le ho detto che queste cose, anche se sono dure, non ci devono determinare. Si può stare davanti alla realtà a testa alta. E nella situazione in cui siamo, lei capisce bene che non lo dico per retorica. Potremmo iniziare a recriminare: prendercela con lo Stato, con le cose che si dovevano fare prima. Ma questo è ben poca cosa, così il cuore non “tiene”.
E qual è allora la posizione da tenere secondo lei?
Fare i conti, come possiamo, con le cose che accadono. Questo rende più veri. Questo è quello che posso dire adesso. Soprattutto grazie ai miei amici che mi stanno aiutando sia nelle cose concrete, sia a vivere in questo modo tutte le difficoltà. Li ringrazio, perché sapere di non essere da soli è un grande aiuto. Soprattutto in un momento del genere, in cui, preso dall’ansia, rischi di girare a vuoto e metterti a fare mille cose inutili.
Cosa si augura a questo punto, per sé e per la sua famiglia?
Che non si arrivi a disperare. E che gli amici continuino a esserci per poter andare avanti in modo realmente umano. Spero che questa esperienza la possano fare anche i miei dipendenti e che capiscano che per me non sono numeri, ma persone…