ATTENTATO A BRINDISI: I FUNERALI DI MELISSA. Guardando (da figlio di genitori brindisini) quello che è successo a Brindisi, con un occhio a Melissa e uno a mio figlio che compie due anni, ho fatto l’esperienza dell’assenza di parole. Con tutto quello che so e che ho letto, non sento che un’angoscia indicibile. Un po’ come per la tragica morte di Morosini, il calciatore del Livorno, avvenuta, ancora di sabato, qualche settimana fa: tanto dolore e nessuna parola.
Poi, però, anche questa volta è successo che qualcuno abbia trovato le parole che a me non venivano. Il potere le trova sempre. Tu senti il vuoto, e in televisione fanno di tutto per riempirlo, per non lasciarti in silenzio, per convincerti che «noi non abbiamo paura». Hanno il discorso pronto sulla mafia, come ce l’avevano pronto sui defibrillatori in campo: poi si scopre che forse non è stata la mafia, come pare non sia stato un infarto per Morosini, ma intanto «ogni avvenimento di fatto si traduce in tanti “sembrerebbe”, “si vocifera”, “si dice”, con titoli ad effetto che coinvolgono la gente in un gioco al rialzo che riesce a dire tutto senza dire niente». Aveva ragione Gaber quando cantava che «c’è un’aria, ma un’aria, che manca l’aria». Guardando «le miserie umane raccontate come film gialli», mi domandavo con T.S. Eliot: «dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?».
Dicono che serve passare dalle parole ai fatti. Ma a volte davvero «lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno», e allora avvertiamo ancora più profondo il bisogno di passare dai fatti alle parole: che qualcuno trovi parole vere, non retoriche, che riescano a scavare nell’abisso del nostro cuore. Parole che svelino quanto l’attentato di Brindisi fa agitare dentro di noi: quel bisogno di senso, che in queste ore non ci lascia pace. «Perché l’insidia / Se vivere è fiducia, / Perché la colpa / Se vivere è bellezza, / Perché l’angoscia / Se vivere è conquista, / Perché la morte / Se vivere è promessa?» (Rebora, Frammenti lirici, L). Penso ai genitori di Melissa. Si staranno chiedendo, come me, più di me: a che serve vivere? perché proprio a Melissa? per che cosa vale la pena continuare?
Dicono che abbiamo bisogno di legalità. Sarà vero, ma è anche vero che tutto il discorso sulla mafia (oltre a non fondarsi su alcun elemento provato, finora) sposta il problema lontano da queste domande. Non mi convince parlare a scuola della mafia, come si è fatto ieri: saremmo tutti d’accordo, e dove sono tutti d’accordo sento puzza di liturgia. Di catechismo di Stato. Tutto il castello costruito in questi giorni tende a dire che il nemico è fuori: non siamo stati noi, noi che siamo normali, noi che non siamo la mafia, non siamo terroristi, non siamo balordi, e non rubiamo. E marciamo, ci indigniamo, fiaccoliamo. C’è un nuovo decalogo, pare, che vuole sempre dividere il mondo in bianco e nero, eliminando le scale dei grigi, e il grigiore dell’anima, il suo potenziale esplosivo di male.
Dicono che noi siamo la parte buona. Era il ’74 quando Pasolini scriveva che «i vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra coscienza abbastanza atterrita, non sono casi»: quella volta «un episodio (il massacro di una ragazza al Circeo) ha improvvisamente alleggerito tutte le coscienze e ha fatto tirare un grande respiro di sollievo: perché i colpevoli del massacro erano appunto dei pariolini fascisti». Ma già una trentina di anni prima Elio Vittorini aveva chiarito in Uomini e no che la colpa del male non è del fascismo o del nazifascismo, come questa volta non è della mafia o della follia, bensì dell’uomo, dentro cui abita questa possibilità inestirpabile.
Dicono che serve impegnarsi. Ma «dopo ogni impegno c’è di nuovo / il vuoto, e occorre altro impegno», ci insegna Pasolini. E l’orizzonte che il silenzio sta aprendo, soprattutto, non può limitarsi a quello civile. Rousseau raccontava nell’Emilio di un dialogo tra una donna spartana e un ilota sull’esito di una battaglia: «“I vostri cinque figli sono stati uccisi”. “Vile schiavo, è forse questo che ti ho domandato?”. “Abbiamo riportato vittoria!”. E la madre corre al tempio e rende grazie agli dei. Ecco la cittadina». A me sembra una prospettiva agghiacciante. Ed è quella che sento replicarsi in televisione: ai genitori di Melissa sappiamo solo dire che noi come scuola, come società civile, come Italia, andremo avanti.
Lo striscione che campeggiava all’ingresso della mia scuola (“La scuola sopravvive a ogni bomba”) mi suona di una tale astrattezza che non riesco proprio a capire cosa possa voler dire in lingua italiana, né sul piano immediato né su quello metaforico. Ma è inaccettabile lasciarsi ridurre, come volevano gli illuministi, da uomini a cittadini.
Dicono che c’è bisogno di normalità. Sarà, ma quando sabato sera ho sentito Maria De Filippi che si emozionava omaggiando Melissa all’inizio di «Amici», mi è parso evidente che la normalità del minuto dopo (Emma Marrone, Alessandra Amoroso, ecc.) non poteva bastare. Perché ci lascia sperduti ogni volta, e di fronte alla realtà che stringe rivela tutta la sua inconsistenza. Le lacrime, le emozioni passano: sabato sera le strade del passeggio erano piene come se per tanti, che pure si erano emozionati, nulla fosse accaduto, niente si fosse spostato nella propria vita.
Dicono che c’è bisogno di parlare, di fare assemblee nelle scuole. Ma lunedì mattina, mentre tanti (quanto siamo complici del male!) non ce l’hanno fatta a trattenersi dal festeggiare per la convocazione dell’assemblea, che faceva saltare qualche ora di lezione, in tante aule ci si è parlato addosso, forse senza accorgersi che è un delitto la retorica, che non lascia mai spazio a chi non trova le parole, e le sente ripugnanti. E vuole essere lasciato in silenzio. Silenzio, angoscia, ferita, dolore, preghiera.
Dicono che c’è bisogno di punire il colpevole. È più che giusto. Ammuffisca in carcere il barbaro bombarolo, ma qui rischia di ammuffire pure, imprigionato dentro di me, il grido che si è riaperto: domanda urgente e bruciante di senso, di verità, di giustizia, di amore, di felicità. Se qualcuno non mi offre delle parole vere, che esprimano questa domanda, la mia angoscia non trova una strada, non apre un lavoro umano, e scorgo il serio pericolo che «quanto in te vive – e in me per te trema – / resta represso gemito / di cui non si sa, di cui non si dice» (Pasolini).
Dicono che abbiamo bisogno di “elaborare il lutto”. A me sembra che esso, anche dopo i funerali, si imponga e spazzi via ogni elaborazione. Lo ha scritto Vendola nel messaggio agli studenti pugliesi: «chi sa rispondere alla domanda che tutti si pongono, come in una litania triste e disperata: perché?». Si tratta di un interrogativo che sfonda i termini umani: chi può abbracciare quei genitori? chi può rispondere a noi? per che cosa vale la pena che io rientri in classe e continui a tirar su mio figlio? c’è qualcuno che non mi lascia in «un pianto solo mio» (Ungaretti, Mio fiume anche tu), ma si commuove per me?
Dicono che sono domande astratte, che non portano da nessuna parte. Però quando Orfeo perse prematuramente la sua amata Euridice, scese nell’oltretomba: «Avrei voluto essere in grado di sopportare e, non negherò, ci ho provato, ma Amore ha vinto. […] Vi prego, ritessete il destino troppo rapido della mia Euridice». A quel pianto carico di preghiera un giorno Gesù rispose: «si recò in una città chiamata Nain, accompagnato dai suoi discepoli e da molta folla. Quando fu vicino alla porta della città, vide che portavano a seppellire un morto, figlio unico di una madre vedova; molta gente della città l’accompagnava. Vedendola, il Signore ne fu commosso e le disse: “Non piangere! Donna, non piangere”». E lo ha ricordato ieri, durante l’omelia, mons. Talucci, mentre ci invitava a vivere la nostra «vocazione»: «Gesù è venuto a condividere ogni cosa con noi».
Non voglio rimanere con la mia indignazione, le parole della televisione, il dubbio corrosivo sul destino della vita: prego perché accadano il mio silenzio, le parole vere, la carezza di Dio fatto uomo.