Cos’hanno in comune gli sfollati emiliani con quelli abruzzesi? Purtroppo, solo il terremoto. Perché, con un tempismo che sarebbe sospetto se non ci trovassimo al cospetto di un evento naturale poco prevedibile – sempre che non si accerti, come per il sisma che colpì L’Aquila nel 2009, che si sarebbe potuto prevedere, eccome – il 17 maggio, giusto giusto tre giorni prima del terremoto che ha colpito Finale Emilia e dintorni, il governo Monti ha cambiato le carte in tavola. Trasformando i 67.000 sfollati de L’Aquila, paradossalmente, in privilegiati.
Per loro sono stati stanziati 10,6 miliardi di euro, ma l’emergenza ne ha assorbiti “solo” 2,9, mentre gli altri 7,7 impiegati per la grande industria della ricostruzione (in gran parte privata), non sono stati neppure utilizzati completamente e ce ne sono ancora 5,7 da spendere per riportare a casa le 33.700 persone (circa il 50% degli sfollati alla data del sisma) che ancora non hanno un tetto stabile sopra la testa… ma si trovano comunque in soluzioni alloggiative a carico dello Stato. Resta il disagio, certo, ma anche la speranza, se non la certezza, di tornare a vivere una vita normale.
E i 5.000 sfollati emiliani? Per loro, passata la buriana dell’emergenza, non ci sarà nulla. I terremotati de L’Aquila sono stati gli ultimi a poter contare sullo Stato. Quelli emiliani, invece, dovranno arrangiarsi. Per loro il Consiglio dei Ministri, proclamando lo stato di emergenza, ha stanziato appena 50 milioni, briciole in confronto al “Bengodi” – e qui le virgolette sono d’obbligo – de L’Aquila, che però serviranno solo per l’emergenza: due mesi, tre al massimo, e poi ognuno per la sua strada. Ammesso di averne ancora una.
Già, perché per restare in Europa si dovevano eliminare i lussi. Non il lusso delle auto blu e delle scorte, e neppure quello dei caccia bombardieri, né quello degli stipendi dei politici più pagati del Vecchio Continente o della miriade di enti inutili che come sanguisughe prosciugano le risorse del Bel Paese. No, il lusso che l’Italia, Paese civilizzato del primo mondo, non si può più permettere, infatti, è quello dell’assistenza e del sostegno al proprio popolo e al proprio territorio in caso di alluvioni, incendi, terremoti, catastrofi naturali ma anche eventi. Quindi, caro cittadino, va bene l’emergenza, per quella le risorse, in gran parte veicolate dal volontariato, ci possono anche essere, ma poi sono cavoli tuoi. Ci dovevi pensare prima. Come? Con una bella assicurazione privata.
Proprio così: il colpo di spugna alla Protezione civile è stato dato con il decreto legge del 15 maggio 2012 n.59, pubblicato in Gazzetta Ufficiale ed entrato in vigore il 17 maggio, proprio il giorno in cui Mario Monti, a passeggio per le vie de L’Aquila, riceveva gli applausi e le ovazioni della popolazione. Cinque giorni dopo, a Sant’Agostino, nel ferrarese, lo stesso Premier, in visita di cortesia ai terremotati riceveva fischi e insulti. Stessa situazione, due accoglienze completamente opposte.
Il motivo sta tutto in quei quattro articoli di “Disposizioni urgenti per il riordino della Protezione civile” (talmente urgenti da non poter attendere il terremoto di tre giorni dopo) che stabiliscono che, d’ora in poi, lo stato di emergenza non potrà durare più 60 giorni, rinnovabili per al massimo altri 40. Poi via le tende (della Protezione civile) perché a occuparsi della ricostruzione sarà… Nessuno. O comunque non lo Stato.
Cento giorni di assistenza, giusto il tempo di montare qualche tenda, recuperare i cadaveri, sgombrare le macerie, tamponare i rischi imminenti, e poi via, perché la ricostruzione, se avverrà, non sarà più affare della Protezione civile. Anche perché il ministero per il coordinamento della Protezione civile non esiste più, a decidere ora sono il Ministro dell’interno o il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che stabiliscono quando ci sia un’emergenza e quanto possa durare (60 giorni prorogabili per altri 40, appunto, indipendentemente da quel che succede nel territorio), ma anche quando debba cessare, possibilmente in anticipo.
La ratio di tanta fretta, forse, sta tutta nell’auspicio di evitare gli accampamento pluriennali ai quali in Italia siamo abituati. Certo, si sarebbero potuti stabilire termini e incentivi per la ricostruzione, ma forse s’è pensato che via le tende, via il dolore. Come dire: occhio non vede, cuore non duole.
Ma i danni, allora, chi li paga? Qui il genio italico dei professori al governo esplode in tutta la sua esuberanza: le assicurazioni private (sulla casa, ovviamente). Già, parliamo proprio della copertura assicurativa obbligatoria del rischio di calamità naturali dei fabbricati privati che il governo Monti aveva tentato di introdurre nel decreto sviluppo, salvo poi un repentino dietro front dopo le polemiche di chi, Confconsumatori in testa, parlava del provvedimento come di un “regalo ingiustificato” alle compagnie di assicurazioni e di una tassa patrimoniale sulla casa, anche la prima, introdotta di soppiatto (tanto che poi, alla luce del sole invece, è arrivata l’Imu). Così l’assicurazione sulla casa obbligatoria uscita dalla porta, rientra dalla finestra. Peccato che gli emiliani, nei tre giorni dall’entrata in vigore del decreto, non abbiano fatto in tempo a stipularla. Davvero intempestivo, questo sisma… Così come il Governo, peraltro, che al solito fa le pentole ma non i coperchi, innovando radicalmente ma lasciando in sospeso sempre qualche particolare di non secondaria importanza.
Dunque, i nostri fratelli emiliani, figli di una Protezione civile minore (anzi, minorata), faranno da cavie nel “regime transitorio anche a fini sperimentali” (si chiama proprio così) in attesa che Palazzo Chigi, di concerto con i ministeri dell’Economia e dello Sviluppo Economico, sentita la Conferenza Stato-Regioni e – soprattutto – l’Isvap (l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private), emani un regolamento. Entro quando? Novanta giorni dalla pubblicazione del decreto. Proprio quando il Parlamento dovrà decidere se convertirlo o meno in legge.
Che tempismo, però: proprio in questi giorni la Protezione civile, passata l’emergenza – che per legge adesso non può durarne più di cento – leverà le tende, lasciando gli emiliani al loro destino e gli italiani con qualche centesimo al litro in più sulla benzina (per rimpinguare il fondo per la Protezione civile). Ma siamo sicuri che anche nel resto di quest’Europa dove rimaniamo con una tenacia che sfiora l’ostinazione, gli Stati non si possano più permettere di ricostruire il proprio territorio?