Caro direttore,
Scrivo perché anche io, da questo paese della Brianza, così lontano da Brindisi e senza nessun titolo d’onore, ho qualcosa da dire rispetto a quanto è accaduto sabato a Melissa. Sono Anna, ho 19 anni e frequento un liceo classico di Carate Brianza. Devo ammettere che, dopo avel letto la lettera del ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, e l’articolo del direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, ancora mi sembrava mancare qualcosa.
Che cosa esattamente? La vita, dalla quale, ormai troppo spesso, prendiamo congedo. Io non voglio essere estranea alla mia vita, rimandando ad altri, o come in questo caso allo Stato, una responsabilità che è mia. Mio è il compito di rispondere alla vocazione che è la vita. Prima ancora del “senso dello Stato”, della “coscienza civile”, mi è chiesto di partecipare attivamente alla mia vita. Andare a scuola, questa può essere la modalità attraverso la quale chiediamo la vita con caparbia insistenza.
“Faremo di tutto perché una cosa del genere non succeda mai più, affinché voi entrando nella vostra scuola pensiate solo ai compiti e allo studio, alle amicizie e allo sport” dice nella sua lettera indirizzata agli studenti e alle studentesse d’Italia, Francesco Profumo. La scuola non può essere il maso dentro cui ridefinire le aspettative degli studenti, temendo una deludente risposta al di fuori di esso. Varcare quella soglia alla mattina, non significa innanzitutto aderire a un compito sociale “per imparare a diventare cittadini”.
È venuto il tempo della persona. Entriamo nelle nostre aule, perché il dialogo con le storie che studiamo possa insegnarci a dialogare con la realtà in modo appassionato. Quei banchi sono i nostri posti in trincea, sono il luogo in cui ciascuno, con temperamenti e passioni diverse, è chiamato a diventare uomo. La struttura è innanzitutto la nostra giornata, l’istante in cui bisogna decidere se guardare fuori dalla finestra o seguire alla lavagna quegli strani segni di matematica. Io vado a scuola per diventare una donna, per capire in che cosa consisto. Questo è il nostro lavoro nel mondo per adesso.
Non è una riduzione, non è il tentativo di estraniarsi dal doloroso fatto di Brindisi, ma è l’unico modo perché il sacrificio di Melissa non ci lasci in una valle di lacrime, non sia come un terreno incolto dal quale nulla di nuovo può crescere. L’unica vera vittoria su questa morte può essere la nostra vita. La mia, la sua, la nostra. Passato e futuro sono presenti entrambi nel presente; che sostanza acquista allora l’ora di filosofia a scuola! Vivere affinché in ogni momento si possa risorgere.
Ferruccio De Bortoli scrive il 20 maggio sul Corriere della Sera: “Ma gli strumenti efficaci nel contrasto dei fenomeni mafiosi, e non soltanto, sono molti altri: una coscienza civile vera e diffusa, una maggiore coesione sociale, un più vivo spirito di legalità, un forte senso dello Stato”. Questo sarebbe un tentare di rivendere ad altri un dono che è nostro; chiedere di vivere la nostra vita, a un altro: lo Stato. La soluzione non è questa. La persona non è riducibile ad un individuo. Così come non si può pretendere che la società sciolga il dramma personale.
Ora, il rischio più grande è quello di statalizzare anche la vita. Scrivo per domandare; per chiedere una risposta che sia vissuta e personale. La risposta la dobbiamo dare noi, domani, sempre; ognuno nel campo in cui deve intraprendere la sua lotta. Noi vogliamo alzarci la mattina e affrontare i nostri impegni quotidiani in modo straordinario, aggredendo ogni particolare della realtà cosicché al fondo di esso, magari, possiamo scoprire che la morte di Melissa è un sacrificio, può rendere sacra anche la nostra vita. Allo Stato è chiesta sicurezza; all’uomo è necessaria una certezza.
La nostra consistenza, come quelle di Melissa e dei suoi familiari, non può provenire dallo Stato. Così come troppo spesso, in questo nostro tempo, pensiamo alla libertà in termini di democrazia, come se fosse il governo ad avere il compito di assegnare il ruolo di ciascuno nel mondo. E così il ministro norvegese Stoltenberg, successivamente alla strage di Anderes Breivik, disse: “Con le armi più potenti del mondo – la libertà di parola e la democrazia – stiamo disegnando la Norvegia per il dopo 22 luglio 2011”.
Veramente la soluzione può essere solo la democrazia? Come se bisognasse costruire sistemi talmente perfetti nei quali non sarà più necessario essere buoni. Eppure, il male ha sfondato anche gli argini della idilliaca società norvegese, che si trova senza parole di fronte a quella strage, tanto da dire: “Utoya un tempo era un paradiso, ora è l’inferno”. Non può esserci vera democrazia senza un’autentica coscienza di cosa sia la persona. Se crediamo il contrario, noi saremo i battuti della vittoria. Non i confini del nostro Paese bisogna ridisegnare, ma gli sconfinati orizzonti cui dobbiamo puntare. Finché ci sarà un uomo sulla terra, uno solo che tratterà l’istante come un ospite da accogliere, ci sarà la storia, ci sarà salvezza.
Il rumore di quella bomba che esplode, ancora così presente per gli studenti della scuola Morvillo-Falcone, prima ancora che l’efficienza del sistema di sicurezza statale, chiede la riscossa della persona.
(Anna Fornasieri, classe quinta, liceo classico don Carlo Gnocchi, Carate Brianza)