Dopo i tanti dibattiti sul persistente grande valore dell’istituzione familiare – e in primo luogo della sua espressione più in linea con la tradizione (genitori e figli) – sorge una legittima domanda: se è vero che la famiglia continua a essere un solido modello di riferimento per la popolazione italiana, come spiegare il suo progressivo indebolimento rispetto ai processi di formazione di nuovi nuclei e del loro sviluppo?



I dati statistici ufficiali mostrano, con crudo realismo, l’implacabile caduta della primonuzialità (dai circa 400mila matrimoni degli anni ‘70 agli attuali meno della metà), la prolungata difficoltà nel transitare alla vita adulta (il 40% dei maschi e il 22% delle femmine in età 30-34anni vivono ancora in famiglia), ma soprattutto la drastica riduzione della fecondità, che da più di trent’anni si è spinta oltre quel confine, due figli per donna, che varrebbe a garantire almeno il ricambio generazionale tra genitori e figli. Oggi si registra in Italia un numero medio di figli per donna che è pari a 1,42 e che se ci si limitassimo a considerare la sola componente con cittadinanza italiana si ridurrebbe ulteriormente a 1,33.



Eppure, le stesse fonti statistiche ufficiali documentano come le donne continuino ad avere un elevato desiderio di maternità: la media è di circa 2,2 figli e anche il fatto che oltre l’80% delle attuali quarantenni abbiano avuto almeno un figlio – quasi come avveniva per le loro madri – testimonia una sostanziale tenuta delle nascite di primo ordine. Purtroppo, nella fredda contabilità del bilancio demografico di una popolazione, avere figli più tardi significa inevitabilmente “produrne” meno.

È noto come tra i fattori che deprimono la fecondità nel nostro Paese prevalgano le motivazioni di carattere economico (che interesserebbero circa il 20% delle donne con uno o due figli e il 12% di quelle con tre o più), ma anche il lavoro extradomestico rappresenta un elemento importante per non volere un altro figlio. Si tratta di difficoltà che rientrano nella sfera della conciliazione tra attività lavorativa e gestione familiare e che spesso ostacolano già la transizione al secondo nato. In conclusione, la diagnosi è chiara. Le cause più immediate della bassa fecondità in Italia possono riassumersi in due ordini di problemi: quelli relativi ai costi (non solo monetari) dei figli e quelli legati alla difficoltà per le donne nel gestire il “doppio ruolo”, di lavoratrice e di madre.



Un doppio ruolo che sconta la presenza sia di un sistema di welfare di tipo familistico – che non le supporta attraverso l’erogazione di servizi essenziali tramite strutture pubbliche, ma demanda principalmente tale compito alle reti informali di aiuti familiari -, sia di un contesto di coppia ancora generalmente caratterizzato dalla disparità di genere nella divisione dei compiti. La difficoltà nel risolvere questi problemi si traduce in una continua attesa verso il raggiungimento delle condizioni ottimali tanto per sposarsi quanto per avere figli, uno stato che spesso prelude alla rinuncia, parziale o totale, della realizzazione di quello che vorrebbe essere il progetto familiare ideale.

Su entrambi i versanti – quello dei costi e della conciliazione – sarebbe tuttavia possibile intervenire (o almeno iniziare a intervenire) – anche facendo tesoro dei modelli già sperimentati con successo nella vicina Francia, così come in alcune realtà nordiche – con opportune azioni di supporto in termini di norme fiscali e tariffarie, di organizzazione del lavoro e di atteggiamento culturale.

E se è vero che l’intervento sul piano economico esige risorse che oggi sono alquanto difficili da reperire, almeno sul fronte della conciliazione un’azione efficace sembra potersi configurare con realismo. Occorrerebbe però comprendere maggiormente non solo quali sono le linee guida e i criteri che determinano le scelte professionali e familiari, ma anche come avviene nella coppia il processo consapevole (e spesso inconsapevole) di negoziazione e di presa di decisione sull’organizzazione familiare.

Bisognerebbe altresì prendere coscienza del fatto che la conciliazione famiglia-lavoro non si misura unicamente con le responsabilità di cura maggiormente incombenti, bensì con l’intero spettro di istanze di sviluppo e realizzazione personali e relazionali. È necessario un progressivo affrancamento di questo problema dal suo imprinting di esigenza esclusivamente femminile per interpretarlo sempre più come una vera e propria questione familiare e sociale. In ultima analisi, ciò comporta – come recentemente è stato autorevolmente suggerito – “la necessità di considerare le esigenze conciliative lungo tutto l’arco di vita, di riconoscere e valorizzare, in un’ottica sussidiaria, l’intervento dei diversi attori sociali (istituzioni politiche, imprese, privato sociale e famiglie) finalizzato, secondo una regolazione normativa di governance societaria, alla compiuta realizzazione di un welfare comunitario, fondato sulla promozione di una buona relazione tra famiglia e lavoro (CEI-Progetto Culturale, Il cambiamento demografico, Laterza, 2011, p.15).

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