Pienamente immersi nella sfera mediatica, come cittadini delle società avanzate siamo esposti al bombardamento di notizie, dichiarazioni, immagini che ci rappresentano quanto accade attorno a noi.

Caparbiamente convinti di essere capaci di pensare “ciascuno con la propria testa”, siamo in realtà balene spiaggiate, smarriti e impauriti. E, non avendo gli strumenti per poter valutare gli accadimenti, finiamo per schierarci “di qua o di là” secondo la logica semplificatrice delle tifoserie.



Il gioco, però, è perverso, perché così si consuma il tessuto morale e istituzionale delle democrazie avanzate, dove le parole sembrano non valere più nulla e dove tutto si brucia nei quotidiani roghi mediatici.

Per ironia della storia, proprio nei decenni in cui Jürgen Habermas spendeva tutta la sua intelligenza a scrivere pagine indimenticabili sull’etica della comunicazione, la parola pubblica rischia di diventare vuota, puro simulacro, mero strumento di una lotta di potere infinita, che alla fine non sa più neppure per che cosa sta lottando.



In questo scenario, capita, talvolta, di imbattersi in qualcuno che, nel tono e nel contenuto, riesce a prender parola senza sottostare a questa logica perversa, accettando il rischio di mettere in gioco se stesso e ciò che ama. In nome e per conto di un bene più grande. Quando ciò accade, lo spirito democratico non può che rimanerne incantato. Quasi riuscisse a vedere uno squarcio di azzurro, a ritrovare un po’ di ossigeno.

Leggere l’intervento di Julián Carrón su Repubblica mi ha provocato questo effetto. Per il tono pacatamente profondo che è riuscito a trasmettere.

In realtà, dovremmo ammettere che ci troviamo tutti nella medesima condizione, esposti senza protezione sul ponte di una nave dove tira un potente vento di maestrale, sempre a rischio di essere scaraventati in mare. Vivendo in questa condizione, le vicende, personali e collettive, di coloro che vivono nelle società contemporanee sono, oggi più che mai, cariche di ferite, cadute, fallimenti. Chi è un po’ onesto non farà fatica ad ammetterlo; gli ipocriti, invece, continueranno a far finta di riuscire a non pagare il conto di quella esposizione; e i cinici, al solo scopo di trovare una giustificazione alla propria ignavia o alla propria codardia, continueranno il gioco perverso di chi si diverte a scovare la contraddizione in chi osa mettersi in gioco.



Ma il tocco lieve con cui Carrón è entrato nell’ultima rissa – dove tanti piani si intersecano creando il terreno ideale per strumentalizzazioni e furbizie – salva ciò che deve essere salvato: di fronte al crollo sconcertante di intere parti del sistema politico-economico-istituzionale di questo Paese, al ricorso sistematico alla guerriglia mediatica come mezzo per eliminare l’avversario, alla delegittimazione reciproca, chi ha a cuore il futuro del Paese deve avere la forza di interrompere la spirale distruttiva che trascina tutto con sé. Riconoscendo gli errori, rispettando le storie, valorizzando il buono di cui tanti sono portatori. 

A questa disciplina sono tanto più chiamati i credenti, i quali sanno che in gioco non c’è semplicemente una porzione più o meno grande di potere. La natura della crisi spirituale nella quale siamo sprofondati non può essere affrontata impegnandosi solo su questo piano.

Si può rispondere colpo su colpo.

Ma se si capisce la vera portata della posta in gioco, allora Carrón ha ragione: l’unico antidoto al disfacimento dei valori e delle istituzioni sta nella attestazione di ciò in cui si crede. È questo che il mondo si aspetta dalla comunità dei credenti e dalla sue manifestazioni.

Anche oltre l’efficienza e l’efficacia. Anche oltre il potere.

Non un’attestazione ottusa e moralistica, incapace di misurarsi con la storia o, peggio, persa alla ricerca una improbabile purezza. Ma un’attestazione che, misurandosi con la realtà, è consapevole di poter sbagliare, che è capace di cogliere la parte costruttiva delle critiche, che sa imparare dai suoi stessi errori. E che proprio per questo, sa essere vicina alle ansie e alle paure di chi vive con trepidazione questo tempo, indicando una speranza concreta.