Il professor Galli della Loggia, che conosco e stimo, parla sul Corriere della Sera della “parabola, della crisi d’immagine e di senso in cui è precipitata Comunione e Liberazione”. Una sorta di destino fatale, per chi decide di stare nella storia, di “entrare nella politica, rischiando la tentazione della separatezza o dell’egemonismo”. Cl sarebbe diventata “sempre più autoreferenziale, rappresentando una sorta di maso chiuso cattolico piantato nel mezzo della società italiana”. 



Professore, non è così. Già dalle premesse: se parliamo di  crisi d’immagine di Comunione e Liberazione, non è cosa nuova, e poco preoccupa. Ci sono stati periodi peggiori, quando alle bordate sui giornali seguivano le pietre o le spranghe alle sedi o alle persone. E chi determina l’immagine di un movimento ecclesiale, i giornali? Sono obiettivi, i giornali? Ma sulla crisi di senso devo dissentire, come tanti amici che hanno incontrato Comunione e Liberazione e si sono sentiti accompagnati in esso a seguire Gesù Cristo, nella sua Chiesa. Il senso è chiarissimo, mai messo in dubbio. Il senso è nella certezza che le domande che più ci premono hanno una risposta e un luogo in cui verificarla, sperimentarla. Attraverso una vita di comunità, la preghiera, l’educazione alla fede. 



Naturalmente, la fede si gioca nella vita quotidiana, ha a che fare con le scelte di ogni attimo: il lavoro, la famiglia, la politica. E naturalmente, come ha giustamente osservato nel suo editoriale, il mondo è ostile, e non potrebbe essere altrimenti. Ma nelle scuole, nelle università, nelle imprese, nelle parrocchie, chi appartiene a Comunione e Liberazione si vede, non è sfiorato dall’idea della setta, del “maso chiuso”. Basta girare, chiedere, vedere, non fidarsi di quel che strumentalmente si racconta. 

Poi lei rimprovera a Cl di essere in qualche modo all’origine dei “peccati” di cui si sarebbero macchiati alcuni noti esponenti della gestione del governo lombardo. Perdoni, è un’equivalenza abituale ma errata: innanzitutto un conto sono i peccati, un conto i reati, di cui ad ora attendiamo le prove. Quanto ai peccati, spurgando i fatti da un certo moralismo, che si applica sempre e soltanto ai cristiani, sono responsabilità dei loro diretti autori, nel caso, non dell’ambiente in cui sono stati educati, dei maestri che hanno avuto. Così come sui padri non ricadono le colpe dei figli, e viceversa: c’è la possibilità che nell’azione politica si siano prese strade non in linea con la storia cui si appartiene? C’è la possibilità di aver travisato, anche in buona fede, il pensiero e l’insegnamento di un sacerdote, qual era don Giussani? Se è così, è giusto correggersi, e chiedere perdono. In campo ecclesiale poi, di egemonismo ciellino sono piene le cronache, ma ben povera la realtà, anzi, sono più i sospetti e le prese di distanza, ed è la sorte di molti altri movimenti ecclesiali, nonostante la loro vita pluridecennale e la loro testata fedeltà alla Chiesa.



Ma ci sono indicazioni di metodo che non comprendo: mi pare infatti che lei individui nella contaminazione con la politica la tentazione egemonica, l’origine di una degenerazione. Poi invita i cattolici ad un’azione politica “che coinvolga forze diverse, avvii un dialogo con identità differenti dalla propria, col realismo e il coraggio di un De Gasperi”. Che non era un mistico. Dunque c’è una politica che non ghettizza, che non contamina? La coalizione di forze diverse, mutatis mutandis dai tempi del ’48, s’è tentata, ed è quel che un po’ superficialmente viene indicato come progetto ruiniano. È stato foriero di aperture, di incontri, di un impegno che nasce dalla società civile e innerva i gangli della vita politica. Spesso i cattolici, di qua e di là, sono stati usati, si sono lasciati mettere all’angolo. Ma ci sono stati, e non di rado insieme, su alcune questioni per loro cruciali.

Dunque, non capisco: riesce a individuare un’ipotesi di coalizione migliore di quelle passate, in cui i cattolici possano essere protagonisti? Si tratta di quel che si discuteva a Todi? Della famosa e fumosa casa comune dei cattolici? Forse se chi in Cl sceglie di dedicarsi alla politica ci entrasse con convinzione sarebbe meno tentato dalla separatezza e dall’egemonia? Lo sono di meno altri cattolici, o il rischio è per tutti?

Tornando alle premesse, mi pare che il rischio di una crisi d’immagine che in questi tempi emerge dalle cronache dei giornali, sia della Chiesa tutta. Chi gioca allo sfascio, pubblicando lettere e discorsi riservati, mettendo una parte contro l’altra, non ha di mira solo Cl, ma la Chiesa. Perché diventi irrilevante, non solo per un esiguo bacino di voti, ma a livello culturale, educativo, sociale. A chi giova? Temo che la lotta non sia solo politica, ma riguardi altri scenari, altri campi di battaglia: se è così, ritrovare una nettezza di giudizi, a costo di una purificazione dolorosa, a costo di attacchi e incomprensioni, non può che essere salutare. Credo che la lettera di don Carrón  a Repubblica non fosse una difesa, o un prendere le distanze, ma ancora una volta un invito a trovare il fascino dell’inizio, a scoprire che il cristianesimo è una realtà tanto attraente quanto desiderabile.