Caro direttore,
visto che qui, nella bassa padano-emiliana, le cose siamo abituati a farle per bene, ci siamo regalati un evento sismico coi fiocchi: roba da fare sbiadire anche i già pallidi giapponesi.
20 maggio 2012, data che rimarrà impressa nella memoria collettiva delle genti padane, oltre che nelle pietre cadute a profusione tra polvere e grida di terrore. Nessuno, qui, se lo aspettava, e per questo ci ha fatto così male. Ha messo in ginocchio famiglie intere, portandosi via case e certezze. Ma non la voglia di ripartire.
La prima immagine che abbiamo, dopo che lo sconcerto di tutti si era un poco placato, è quella della nostra scuola, l’I.I.S. “G. Luosi” di Mirandola: arruffata, in disordine, con qualche ferita lungo i corridoi, quasi ci fossero passati i ladri, ma già il preside, la vice e la segreteria al lavoro per vedere di chiudere l’anno come da programma. Perché da noi funziona così: quello che si è progettato, deve essere portato a termine, costi quel che costi.
Ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo iniziato a raccogliere i cocci e via, a muso duro; un pensiero rapido, ma accorato, ai quattro operai deceduti a Sant’Agostino di Ferrara, e si ricomincia.
Nossignori, troppo presto; siamo a scuola, in giardino con i ragazzi, per l’esattezza, a mettere a punto una “strategia” per affrontare al meglio gli esami di Stato, quando la seconda scossa (dopo le mille dello “sciame sismico”, parola affascinante per descrivere una sorta di stillicidio cerebrale che affossa ogni tentativo di risorgere) toglie la vita a 17 persone, e la speranza ad almeno altre 100mila. Vedere le macerie alla tivù non è come osservarle da vicino: passare per la zona industriale di Mirandola, Medolla e Cavezzo è un’esperienza di vita, che si fissa nelle retine e scava voragini nei cuori. Qui sono morti operai e imprenditori, fianco a fianco, nel tentativo di ripartire, di portare avanti quel sogno chiamato “distretto biomedicale”, sorto in questa zona poco industrializzata proprio 50 anni fa.
Mirandola, la cittadina un po’ altezzosa che ha dato i natali a Pico, illustre umanista famoso in tutto il mondo, dopo il sisma del 29 maggio è l’ombra di se stessa. È stravolta, deturpata, privata dei suoi centri vitali, il Comune, le banche, le Chiese, le scuole… A poco a poco il caos angosciato si organizza, intorno all’unica scuola che ha retto, in quanto costruita di recente, la “Montanari”. Tendopoli, sportelli bancari, servizi sociali, aiuti immediati ai bisognosi, assegnazione posti letto… tutto ruota vorticoso, ma impeccabilmente orchestrato.
Anche i ragazzi, incapaci di starsene lontani da quello che è il loro mondo, si radunano qui, nelle loro scuole; hanno bisogno di vedere che tutto continua comunque, che i loro insegnanti sono presenti, impegnati con il preside a gestire gli esami “in emergenza”, sotto una tenda bianca, esattamente come avrebbero fatto nella loro aula fornita di Lim e computer.
È forse la nostra cultura ancestrale, di stampo agricolo, che ci ha forgiati all’etica del lavoro. Qualcuno ci ha rimproverati, l’indomani del sisma, di anteporre la frenesia della ricostruzione alla tutela della vita. Ebbene, ci permettiamo di sottolineare che è la nostra Costituzione che recita “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. È il lavoro che àncora una famiglia a un territorio, che le permette di sostentarsi, di realizzarsi, di crescere e di fare germogliare il tessuto sociale e umano.
Un ultimo pensiero ci corre alle chiese, che non ci sono più. Mirandola ne aveva di bellissime, come i paesi limitrofi del resto. Ora sono tutte squarciate, sventrate, violate da quelle scosse che non hanno avuto pietà neppure di loro. Giovannino Guareschi, emiliano verace, ha esemplificato con maestria nei personaggi di Peppone e Don Camillo le due tendenze opposte, ma in fondo in fondo complementari, dell’animo della gente di qui, la terra e il cielo, il profano e il sacro. Il sindaco “rosso”, legato alle necessità concrete della popolazione, non dimentica l’amico parroco perché sa che i valori autentici della vita si fondano nella spiritualità che è in ognuno di noi.
La ricostruzione delle nostre terre devastate, e delle nostre anime, ha bisogno di tanti Peppone e Don Camillo che insieme guidino la loro gente. Le Chiese devono rinascere accanto ai Municipi, alle fabbriche, alle case, alle scuole.