Sull’ultimo numero della rivista Psychopatology, uno studio Usa mostra che il 10% degli studenti dei Campus hanno ideazioni suicide; sulla rivista Lancet di questo mese uno studio cino-inglese si dilunga sulla prevenzione del suicidio fatta tramite internet. Strano mondo, il nostro: la scienza vuole prevenire il suicidio e sui giornali c’è chi lo acclama come un diritto. Salvo poi trovarlo in casa propria, come avviene in questi giorni in Italia, tra morti per disperazione di imprenditori, disoccupati e studenti; e rendersi conto che il suicidio è terrore, dolore, solitudine… tutto ma non un diritto: un diritto presuppone essere liberi, ma dolore, sofferenza e solitudine ottundono e schiacciano ogni libertà e chi lo compie ne è la vittima.
Fino a ieri il suicidio veniva definito “atto nobile” o “scelta da rispettare”… e in questi giorni quei proclami ora stonano, strappano il cuore, creano imbarazzo: quando si guardano in faccia le persone morte e i loro familiari, certi “diritti” da vivere nella solitudine e nella tanto venerata “autodeterminazione” diventano dei macigni.
I massmedia devono interrogarsi su come sono stati trattati questi temi, risalendo ai tempi in cui parlavano di diritto al suicidio come fosse un diritto tra i tanti, e arrivando a come sono stati trattati in prima pagina sapendo che il suicidio per sue dinamiche interne determina un effetto di emulazione. Al tema suicidio è stato riservato poi pochissimo approfondimento vero, puntando certo l’indice sulla crisi economica, ma pochissimo sulle dinamiche psicologiche della persona-vittima del suicidio, e soprattutto su come prevenirlo. Perché ormai la parola d’ordine è: “Lo vuoi fare? Fallo, basta che non disturbi e segua i criteri corretti”; e quando ci si trova davanti a suicidi veri non si sa più cosa dire.
Ma guardiamole bene le persone che in questi giorni entrano nella statistica dei suicidi: imprenditori, disoccupati, sportivi, giovani. Certo, è da miopi non additare il problema “crisi economica”, ma questo non cancella il problema “solitudine” o “disperazione”. Ci potranno dire che questi suicidi non riscontrano il placet dell’intellighenzia postmodernista, che il suicidio da liberalizzare è quello che passa dalle maglie di un’apposita commissione ben assortita, paritaria e bipartisan…, e che il camice bianco o l’apposita clinica è il posto giusto, mentre i binari di una ferrovia non lo sono; ma davvero accettiamo che qualcuno in maniera illuminata pensi di “saper bene” quello che agli altri conviene anche sul crinale personale e delicato della morte?
E pensare che poi le stesse persone affermano che nelle decisioni “autonome” nessuno deve interferire. Paradosso? No: potere dell’epoca postmoderna, in cui la solitudine è il sommo ideale. Ma attenti: si parla oggi di libera scelta o piuttosto di disperazione, trattando di tanti di questi casi? E se è disperazione o sofferenza, quale sarebbe allora la libera scelta di un suicida: quella che passa attraverso una commissione di saggi illuminati?
Fatto sta che almeno in questi giorni di diritto al suicidio non ne parla più nessuno; forse per opportunità, forse in attesa di tempi migliori; o perché ora guardano in faccia cosa è il darsi la morte e non lo auspicano più. Che questa sensazione non li abbandoni e serva (anche a noi) ad essere compagni, piuttosto che ad aprire le porte alla morte solitaria, fosse anche “medicalmente assistita”.