Una coppia di Padova si rivolge a un centro di fecondazione assistita per cercare di avere un figlio. A gravidanza iniziata, scopre che c’è stato un errore: il liquido seminale usato non è quello del marito, ma di un estraneo. La signora decide di abortire e chiede alla clinica i danni, che però il tribunale non riconosce, dando avvio a una causa che dura da tre anni, e di cui non si vede la fine. Una storia raccontata dal quotidiano “Libero”, ieri, che l’ha rubricata come un caso di “malagiustizia” – per il mancato riconoscimento di danni subìti dalla donna – e “malasanità”, per l’errore avvenuto in laboratorio. Ma le definizioni sono riduttive.
L’errore in laboratorio, innanzitutto. L’On. Eugenia Roccella, sottosegretario alla salute con il governo Berlusconi, è stata continuamente attaccata dai radicali per come stava applicando alla fecondazione assistita quelle normative europee su tracciabilità e sicurezza riguardo a cellule e tessuti, che servono innanzitutto a ridurre le possibilità di tragici errori, come questo. Addirittura in parlamento c’è chi ha protestato che quelle norme così rigorose avrebbero causato la chiusura di molti centri. La verità è che finalmente adesso sono obbligatorie le ispezioni ai centri di procreazione assistita, almeno una volta ogni due anni, mentre finora, da quando è entrata in vigore la legge 40, i centri sono stati sottoposti solo a controlli per l’autorizzazione da parte della regione. Ma quello che lascia sconcertati è l’”aborto pilotato” a cui è ricorsa la signora in questione. Fermo restando che non è chiaro il significato dell’espressione usata – ogni aborto volontario è “pilotato”, ovviamente – la decisione di abortire lascia l’amaro in bocca.
L’errore fatto è indubbiamente gravissimo, e va sanzionato nel modo più duro. E sicuramente il fatto di trovarsi in pancia un figlio che in parte è anche di un perfetto estraneo, è un trauma (i legali della coppia hanno assimilato il danno psicologico a quello di uno stupro). Ma perché sopprimerlo, tanto più che in parte è anche proprio? Tornano alla mente tutte le motivazioni portate da chi vuole togliere, nella legge 40, il divieto alla fecondazione eterologa: un figlio è innanzitutto di chi lo cresce, e non di chi gli dà la metà del patrimonio genetico; quel che conta è quanto sia stato voluto, e l’amore che gli si dà, le modalità del concepimento sono del tutto irrilevanti: queste alcune delle argomentazioni di chi vorrebbe introdurre questa procedura anche nel nostro paese, argomenti che però nessuno ha messo in campo discutendo il caso di questa coppia, che sicuramente l’eterologa l’ha subìta – e questo è grave – ma che ha preferito abortire piuttosto che avere un figlio non interamente proprio dal punto di vista biologico.
Sarebbe interessante poi capire perché non è stato riconosciuto il danno subìto: forse perché la coppia ha deciso di abortire e quel figlio non è più nato?
Certo, siamo davanti a un caso limite, una situazione – fortunatamente – molto particolare, ma colpisce soprattutto che di quell’aborto le cronache riferiscano con una indifferenza sconcertante, quasi fosse il finale scontato dell’errore di “malasanità”. Con la stessa indifferenza con cui si parla di eterologa, di genitori “biologici” e “sociali” come fosse la distinzione più normale del mondo (da parte di chi cerca questa tecnica), di vendita di gameti, di maternità surrogata (il cosiddetto utero in affitto), di embrioni crioconservati e di tutti gli stravolgimenti che le nuove tecniche hanno portato nel concepimento degli esseri umani, quegli stravolgimenti che, alla fin fine, ci fanno essere sempre più indifferenti al valore della vita nascente.