Insegno da venticinque anni, e l’altro giorno mi è capitato di accompagnare ad un colloquio con gli insegnanti un genitore, accorso angosciato alla telefonata che annunciava la bocciatura del figlio.

I docenti sono concentrati al massimo nel giustificare, numeri alla mano, la loro decisione. Snocciolano cifre e date. Certo il ragazzo si è impegnato, certo è sempre stato educato, assiduo, però…



Si arrabbiano quando il genitore dice che il ragazzo nelle materie-disastro si è sentito abbandonato, lasciato in un angolo. Che fosse vero o no, questa era la sua percezione. L’insegnante dice che non se ne è mai accorta. Il genitore cerca di capire cosa non ha funzionato. Risposte confuse.

Domando allora: scusi, ma lei col ragazzo ha mai parlato? Ha mai parlato una volta? Un paio di secondi di silenzio, clima di sorpresa, poi risposta: se intende io e lui a parte, fuori dalla classe, no.



Questa è una scuola quotatissima ed efficientissima, dove i voti vengono comunicati via internet e arrivano alla precisione del centesimo (sul serio: 4,75 oppure 5,25, non scherzo). Eppure in questa scuola è possibile che un insegnante passi tutto l’anno di scuola, tutti i giorni in classe, e non senta mai l’esigenza di parlare coll’alunno in difficoltà. Mai. Neanche per un centesimo di secondo. In solitaria si mette davanti al computer per comunicare ai genitori i voti alla seconda cifra dopo la virgola. Davanti al ragazzo, mai. 

L’episodio è indicativo.

In quale famiglia, gruppo, comunità umana, team produttivo o di ricerca, nei confronti di una persona in difficoltà si attivano chissà quali strategie meno quella di parlare con l’interessato? Le nostra scuole sembrano a volte un mondo a parte. 



Senza forse esserne consapevoli, i maestri, gli educatori a cui affidiamo i nostri figli sono scivolati nel ruolo di allenatori anabolizzanti che inculcano dati, e chi più ne inzeppa più è bravo. Che pensano a valutare al centesimo l’orale di un ragazzo. Ma che non hanno neanche la curiosità di capire assieme a lui perché va così male e non apre bocca là in fondo alla classe, né la capacità di motivare il discente con una frase, o con un sorriso a parte. Anche il più crociano dei nostri vecchi insegnanti avrebbe trovato il modo di imbattersi casualmente sulle scale nell’alunno in difficoltà e di chiedergli, magari con tono burbero e dandogli del lei, le ragioni del rendimento scarso, le motivazioni delle difficoltà, aprendo anche solo con due frasi un varco alla comunicazione.

L’emergenza educativa è anche questo: il mito della scientificità nelle relazioni e la perdita di un fine nel processo formativo hanno reso gli insegnanti, i ragazzi, i genitori vittime di una logica impazzita. La “gabbia d’acciaio” weberiana si è concretata nella più domestica “griglia” di valutazione, vero cardine della scuola di oggi. Rassegnati all’esistente, incapaci ormai di pensiero critico, frustrati in un ruolo stancamente applicativo, molti docenti ex sessantottini sono passati dal sei politico al voto al centesimo. Smarriti tra incombenze cartacee e digitali, oppressi dallo spauracchio del ricorso, alcuni insegnanti hanno smesso semplicemente di essere maestri, per divenire istruttori. 

Vorrei dire a chi come me è insegnante, a chi come me è genitore: non autoemarginiamoci, soccombendo alla triste illusione che vede nell’elemento umano un fastidioso fattore di disturbo del processo educativo “scientifico”. L’io è l’unico elemento indispensabile nell’educazione. Non possiamo rassegnarci. L’emergenza educativa continua a provocarci.