Forse non tutti sanno che, non lontano da Milano, nel comune di Gerenzano (Va) c’è un’oasi di verde capace di entusiasmare anche i più pigri. É il Parco degli Aironi (via Inglesina), il cui nome è già evocativo di quello che propone. Entri dentro a un cancello e la strada conduce a un parcheggio che scende verso una conca di verde e di boschi. Al centro di questa conca c’è un lago, è divertente vedere i pescatori talmente assorti che neppure la pioggia di una nuvola passeggera li distoglie dal trafficare con ami ed esche. In diversi ampi recinti si possono osservare i cervi che hanno appena figliato (se ne contano un centinaio), mentre i prati concedono soste di relax. Prima del lago c’è anche un’agorà, dove i gruppi si ritrovano a cantare o a fare spettacoli, mentre sul lato alto della conca c’è un percorso da fare a piedi o di corsa, che è un toccasana (nome anche del sommo liquore che servono nel punto ristoro). Per rifocillarsi, da qualche mese si sono messi di impegno un gruppo di amici che fanno riferimento a una società cooperativa sociale onlus, Ardea, e ogni sera, su una terrazza che guarda la conca e il tramonto, fanno andare la griglia (per prenotare 3337057162). Ebbene, questo è il posto ideale per mangiare pane e salame, oppure il mitico carpaccio celtico del prosciuttificio Marco d’Oggiono (via Lazzaretto, 29 – tel. 0341576285) di Oggiono (Lc), che è una stella del Golosario. Apparecchiano i tavoli, portano il Lambrusco Marcello di Ceci, perfetto con le salamelle e i wurstel, ma anche per la tagliata, servita con un’insalata fresca. E poi frutta fresca di stagione per tutti. Qui sabato sera ho passato una serata ideale, con una ventina di amici, che hanno portato le chitarre per concludere degnamente uno di quei rari momenti dove si sta veramente insieme. Proprio qui mi è venuto in mente che è raro, dopo aver mangiato di gusto, partecipare a questo antico rito di ringraziamento che è il canto. Se avete presente il film o il racconto Il pranzo di Babette, l’ultima scena è quella di una comunità ritrovata, che attorno a qualcosa che ciascuno dei commensali ha descritto – il gusto per l’appunto – si mette a ballare. Ora, non so cosa c’entri con questo periodo disegnato a tinte fosche, ma se penso alle comunità di mezzo mondo, proprio a quelle dei Paesi del cosiddetto terzo mondo, un gesto degno di merito che fanno, dopo aver mangiato insieme, è proprio il canto.
Loro che sono poveri cantano, noi che poveri lo siamo molto di meno, ci chiudiamo sempre di più, senza la compagnia di quel punto di fuga che ci riporta al cielo stellato. È questo il progresso? Oppure è l’involuzione di un popolo obeso, metaforicamente parlando, che sembra aver perso il senso di un grazie, che sta appunto nel canto. Anche il pastore errante dell’Asia, di leopardiana memoria, aveva il suo canto, pieno di attesa e di senso, e ricordo che anche gli amici che andarono in soccorso delle popolazioni terremotate del Friuli negli Anni Settanta tornarono a casa coi canti di quelle terre. A me, ancora ragazzo, apparivano come un collante che teneva insieme un popolo. Invece, cosa tiene insieme questo nostro popolo? Uno spread un po’ più basso? Un’analisi convincente che sempre prospetta un disastro? Oppure vincere gli Europei? Mi sembra un po’ poco per ricominciare insieme.