Si apprende che nelle zone terremotate dell’Emilia si moltiplica il numero di coloro che rifiutano di venire concentrati nelle tendopoli preferendo invece pernottare in tende montate nei pressi della casa pericolante o più spesso abitabile ma nella quale non si sentono ancora di fare stabilmente ritorno. Questa è un’ottima notizia: significa infatti che questa gente non desidera essere “gestita”, ma vuole restare padrona in casa propria e protagonista della ricostruzione della propria terra. L’episodio mi ha fatto tornare alla memoria una vicenda cui anch’io tra molti diedi un contributo nel Friuli colpito dai terremoti del 1976, dove soccorritori che avevano alle spalle esperienze di sinistra del ’68 puntavano ovunque possibile a trasferire i terremotati in tendopoli, mentre quelli che la pensavano come me sostenevano che ovunque possibile li si dovevano aiutare a restare nei pressi delle loro case, agibili o inagibili che fossero. Mentre infatti il trasferimento in tendopoli ne faceva tendenzialmente delle persone spaesate e dipendenti da chi le organizzava, il loro restare nei pressi della casa dove sino ad allora avevano vissuto non provocava lacerazioni del tessuto sociale e quindi anche mitigava le lacerazioni comunque subite dal tessuto economico. Perciò lanciammo una campagna di prestito gratuito di roulottes da famiglia a famiglia. Con la nostra assistenza e garanzia centinaia di famiglie di altre regioni d’Italia prestarono le loro roulottes a famiglie friulane terremotate alle quali inoltre vennero forniti box-magazzini prefabbricati metallici chiudibili a chiave ove riporre beni di valore via via ricuperati dalla casa inabitabile o comunque inabitata. Non so dire se oggi le roulottes disponibili siano in Italia numerose come erano allora, o se piuttosto oggi siano più numerosi i camper.
Adesso magari la soluzione tecnica potrebbe essere diversa, ma il criterio ispiratore dell’operazione è sempre valido. La scelta per una priorità o per l’altra non è secondaria poiché è in effetti il riflesso di due opposte “filosofie” in tema di protezione civile, una di matrice “illuminata” autoritaria e l’altra ispirata al principio di libertà e quindi di sussidiarietà. Secondo la prima la popolazione colpita da una catastrofe naturale è perciò stesso regredita in massa alla condizione di infante. E infatti non a caso ci si precipita innanzitutto a nutrirla, il che spesso è non solo inutile ma dannoso dal momento che provoca il collasso anche dei negozi di generi alimentari e dei bar sopravvissuti alla catastrofe, che invece sarebbero così importanti come primi luoghi di riaggregazione sociale. Poi ci si mette a cercare di allontanarla da dove abitava perché in sostanza… disturba l’opera illuminata dei soccorritori e di coloro che, venuti da fuori per “mettere in sicurezza” gli edifici, preferirebbero farlo come meglio credono senza doversi consultare con gli abitanti.
Secondo invece la seconda di queste “filosofie” il titolare del diritto di riabitare e ricostruire è il terremotato stesso; e ogni cosa si deve fare con lui e secondo lui, e non per lui ed eventualmente suo malgrado. Non c’è spazio per dettagliare, ma chiunque non fatica a immaginare che dall’uno o dall’altro di questi criteri di fondo derivano a cascata due modi del tutto diversi di fare protezione civile.
Leggendo, guardando e ascoltando il diluvio di cronache, radiocronache e telecronache inutili, imprecise e casuali, che dalle zone terremotate dell’Emilia ci vengono in questi giorni versate addosso da cronisti impreparati e mal guidati, sono giunto ancora una volta alla mesta conclusione che se non vivessimo in un tempo incapace di memoria e di riflessione già solo per questo le conseguenze delle catastrofi diventerebbero meno gravi di quanto oggi siano. Ebbi occasione di partecipare in vari ruoli al soccorso e alla fase di emergenza di tre terremoti (Friuli, 1976; Irpinia, 1981; Haiti,2010). Perciò conosco un po’ la materia anche per esperienza personale, peraltro come tantissimi altri. Per chi ha un’esperienza come la mia ciò che sorprende innanzitutto è che ogni volta si riparte da zero con le stesse osservazioni scontate, con gli stessi luoghi comuni e troppe volte rifacendo gli stessi errori. Dopo un grande terremoto le istituzioni e le organizzazioni che sono intervenute nella fase di primo soccorso e di emergenza dovrebbero analizzare minutamente tutto quanto è accaduto e tutto quanto si è fatto e prenderne spunto per aggiornare criteri e affinare ei procedure e strumenti. E’ invece evidente da quanto si vede che ciò non accade mai, ovvero mai adeguatamente. Quindi ogni volta gli equivoci e gli errori si ripetono. La conseguenza grave più recente di tale lacuna sono gli errori compiuti nel caso del terremoto dell’Aquila quando – diversamente da ciò che vari esperti suggerirono invano – si spese troppo negli alloggi provvisori e si puntò sull’allontanamento della popolazione dal centro urbano invece di dare la priorità al ripristino di quest’ultimo anche a costo di chiedere ai suoi abitanti di accettare soluzioni provvisorie più spartane. Così si disarticolò la struttura socio-economica della città, il che in fin dei conti le causò danni più gravi di quelli che il sisma aveva provocato ai suoi edifici.
Una catastrofe cosiddetta naturale è l’esito dell’impatto tra un’esplosione di energia forte e poco frequente da un lato, e dall’altro un certo grado di qualità tecnica e di organizzazione sociale della popolazione umana interessata all’evento. Questa ormai classica definizione resta per ora insuperata. Tanto per fare un esempio lontano dalla cronaca di questi giorni, una mareggiata della medesima intensità provoca: nei Paesi Bassi un flusso verso le dighe costiere di turisti interessati a godersene lo spettacolo; nel Bangladesh invece la strage di migliaia di famiglie di poverissimi che vivono in tuguri costruiti nelle zone golenali del grande delta fluviale non governato di cui consistono le sue regioni litoranee.
Venendo al caso del rischio sismico, se una zona sismica storicamente è abitata significa che deve essere abitata, deve essere coltivata, deve essere sede di attività produttive. La soluzione non è quella di andarsene da un’altra parte. Perciò non solo adesso ma anche nel passato l’uomo ha sempre sviluppato tecniche edilizie antismiche proporzionate alle caratteristiche degli edifici che in ogni momento era capace di costruire: gli archi che collegano tra loro gli edifici in tanti antichi villaggi in pietra situati in zone sismiche ne sono una testimonianza visibile a tutti. Tanto più oggi trasferendo modelli e formule tecniche dall’ingegneria navale a quella edilizia si può giungere ad edificare costruzioni perfettamente antisismiche. Al massimo di un sisma c’è un momento in cui il terreno è come se fosse liquido. E che cosa è una nave se non un edificio che sta stabilmente in condizioni di massima sismicità? Il problema dunque non è tecnico bensì culturale, economico, politico. Come dimostrò il caso dei terremoti del 1976 in Friuli, una ricostruzione gestita all’insegna della libertà, e di quella che oggi abbiamo imparato a chiamare sussidiarietà, può paradossalmente diventare un grande volano di ulteriore sviluppo e crescita umana. E’ ciò che dobbiamo augurarci ma anche volere per le zone dell’Emilia colpite da questo terremoto. E anche per il lembo di Lombardia pure pesantemente colpito, che però non riesce a fare notizia per una fortuna che ha avuto nella disgrazia: quella di avere avuto danni materiali ma (per sua buona sorte) non vittime umane.