Il “bad boy” per eccellenza che esulta dopo la prima rete e a fine gara va ad abbracciare la mamma adottiva che lo osserva orgogliosa in prima fila, qualcosa deve pur significare. Due perle di Mario Balotelli stendono la Germania nel giro di un quarto d’ora e trascinano la nazionale italiana alla finalissima di Kiev. SuperMario mostra i muscoli e in un sol colpo riesce a lasciarsi alle spalle ogni bravata, ogni follia, ogni prepotenza e, sorvolando ogni ragazza da copertina, sceglie di dedicare i due gioielli che riscrivono la sua carriera calcistica a quella mamma che dall’età di due anni si è presa cura di lui. Le piazze italiane esplodono, quelle tedesche piangono. Il giorno del vertice Ue la freddezza e l’autorità teutonica vengono domate dagli Azzurri, capaci di sconfiggere anche la legge dei grandi numeri e far rivivere istanti dell’altra semifinale, quella del 2006, a milioni di persone. E’ la vittoria dei “Mario”, osserva qualcuno, da Draghi fino a Balotelli, passando per Monti. Già, Monti, il premier che fino a poco fa voleva interrompere il calcio per due o tre anni e che adesso annuncia la sua presenza alla finale contro la Spagna.
Con Alessandro Meluzzi ripercorriamo i momenti di questa vittoria, da ciò che l’ha generata alle conseguenze che ha prodotto, in Italia e in Germania, cominciando da SuperMario Balotelli. I muscoli mostrati dopo la seconda rete non vogliono incutere timore, spiega Meluzzi, come ha invece fatto attraverso tante altre azioni passate, «ma rappresentano anzi un’immagine ingenua, quasi infantile, in cui l’esibizione di fisicità vuole esprimere bravemente quei sentimenti di esclusione ed emarginazione che fanno parte della storia di questo ragazzo. E’ un’immagine tutto sommato più giocosa che inquietante». E’ poi l’abbraccio a fine partita con la mamma a riassumere in un unico fotogramma la storia di Mario Balotelli, salito con difficoltà e merito fin sull’Olimpo del calcio internazionale. «In quell’immagine c’è tutta la sua storia di abbandono, di solitudine infantile, di affido. Ma anche di grande tenerezza e di un piccolo grande bambino che ha trascorso anni difficili». I festeggiamenti per la vittoria si spostano dalle piazze alle strade di ogni città d’Italia: bandiere tricolori sventolano al cielo fino alle prime luci dell’alba in una liberatoria esultanza che probabilmente cela diversi e più profondi significati: «La partita Italia-Germania ha in sé qualcosa di epico – spiega Meluzzi –: custodisce ricordi che appartengono a un’importante storia sportiva, più e meno recente, ma sono le vicende geopolitiche, l’atteggiamento della Merkel e le differenze caratteriologiche tra italiani e tedeschi a fare la vera differenza. Fantasia e rigore si scontrano, e sono queste dimensioni, di genio e sregolatezza da un lato contro la razionalizzazione dall’altro a fare di questa sfida un evento unico».
Italia e Germania si sono affrontate in un parallelismo temporale e sincronico, spiega Meluzzi, dal campo di calcio al tavolo europeo, «ed è proprio questa contemporaneità e rendere speciali certi eventi. Sono in gioco sentimenti trasversali che razionalmente non hanno nulla in comune ma che finiscono per accomunare un’emotività che non è isolata. Da qui la definizione impropria della vittoria dei vari “Mario”, da Balotelli a Monti, contro la Germania incarnata da quella dimensione rigida della Merkel». In conclusione, osserva Meluzzi, «il Paese si trova in un periodo in cui ha un bisogno continuo di autostima. Questa improvvisa “vitamina” è arrivata grazie a questi ragazzi che si presentano di volta in volta allo stadio non con la ragazza di turno ma con fidanzate, mogli e figli, e grazie a un commissario tecnico che dopo la vittoria va in pellegrinaggio alla Parrocchia della Sacra Famiglia, nella diocesi di Cracovia. Ricordiamoci che un uomo, così come un collettivo, dà il meglio di sé quando attinge alle sue radici più autentiche. Questo è vero in ogni aspetto dell’esistenza, e questa Italia che riscopre radici come queste fa ben sperare per il futuro».
(Claudio Perlini)