Due anni e 8 mesi di carcere, senza la condizionale. Manco avesse rubato. Lo avesse fatto, come spesso avviene, non lo avrebbero condannato. E comunque, probabilmente, in carcere non ci sarebbe mai andato. Si sarebbe fatto, al limite, qualche mese di servizi sociali. Lascia perplessi la sentenza del Tribunale di Milano che ha condannato l’onorevole del Pdl, Renato Farina, per un reato che, a detta di molti, non è neppure un reato. Ricapitolando: si è recato nel carcere di Opera per far visita a Lele Mora. Come prevedono le sue prerogative parlamentari, non ha bisogno di alcuna autorizzazione. La persona che lo ha accompagnato, tuttavia, pare non fosse un suo collaboratore come aveva dichiarato. La bugia gli è costata cara. Abbiamo chiesto un commento a Lorenzo Strik Lievers, docente di Storia e didattica della storia presso la Bicocca di Milano, già militante nel Partito radicale, senatore e deputato.



Come valuta la vicenda?

Mi pare altamente grottesca. Posto anche che si tratti di un reato, sarebbe il medesimo che viene commesso da tutti i parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. In maniera del tutto legittima e doverosa.

Perché dice “posto che sia un reato”?

Non conosco la sentenza nel dettaglio; sta di fatto che la norma che impone ai parlamentari che la persona che li accompagna nelle carceri sia un loro collaboratore è frutto di una circolare ministeriale. Per altro, interpretata in maniera differente da carcere a carcere.



Perché, invece, si tratterebbe di un atto legittimo?

La norma in questione è profondamente contraria alla ratio delle legge che consente a deputati e senatori di visitare i carcerati senza bisogno di autorizzazioni. La visita rappresenta un atto politico e la previsione della possibilità di essere accompagnato da qualcuno, rende efficace tale atto. Il parlamentare, ad esempio, può farsi accompagnare da un esperto di carceri. O da un dirigente politico che con lui conduce un’iniziativa sulle carceri. I radicali, negli ultimi anni, si sono spesso fatti accompagnare da Marco Pannella, pur non  essere Pannella parlamentare da tempo.



Eppure, Farina ha mentito. Da qui, il reato di falso in atto pubblico

Lo fanno sistematicamente tutti i parlamentari; si tratta di una norma assurda che obbliga al non rispetto di sé. Rispettarla, infatti, rendere impossibile svolgere la propria attività politica. Era nata per impedire che il parlamentare si facesse accompagnare da un giornalista o dall’avvocato del detenuto, ma è stata estesa a chiunque.

Come valuta, quindi, l’atteggiamento della magistratura?

Mi pare che non vi siano tracce di equanimità; sarebbe stato opportuno, anche a fronte del riscontro del falso in atto pubblico, sospendere la causa e, casomai, porre il problema della congruità di questa norma con la legge, che ha obbligato Farina a dichiarare il falso.  Siamo di fronte, in sostanza, ha una decisione estremamente sproporzionata. Da parte della magistratura italiana, purtroppo, non è l’unica.

A cosa si riferisce?

All’abuso della custodia cautelare preventiva. Si tratta di un fenomeno tra i più gravi, per i quali siamo stati più volte condannati in sede europea, nonché contrario alla Costituzione. La custodia cautelare, infatti, prevista esclusivamente in casi estremi ed esclusivamente laddove sussista il rischio di fuga, di reiterazione del reato, o di inquinamento delle prove, è ormai utilizzata indiscriminatamente come strumento di condanna preventiva. Contro persone che, oltretutto, nella metà dei casi saranno dichiarate innocenti.

La vicenda di Farina e gli abusi legati alla custodia cautelare preventiva di cosa sono indice?
Del fatto che in Italia sussistono, in seno alla magistratura, una serie di elementi distorsivi. Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ad esempio, è stato utilizzato come espediente a cui appellarsi per giustificare un atteggiamento di assoluta discrezionalità; c’è un problema, inoltre, relativo alla valutazione degli errori del magistrato e alla sua impunità in caso l’errore venga, effettivamente, riscontrato.

Come se ne esce?

Il Consiglio superiore della magistratura dovrebbe utilizzare maggiormente i suoi poteri di intervento; salvaguardando, ovviamente, il principio dell’indipendenza del magistrato. Sarebbe necessario, inoltre, separare la magistratura inquirente da quella giudicante.