La storia della povera Shafilea, ragazza della seconda generazione immigrata in Inghilterra, massacrata dal padre perché non voleva sposare il cugino conosciuto in Pakistan, è del tutto emblematica. Non sconosciuta, per la verità, nel nostro Paese, che anzi di vicende del genere ne ha vissute troppe finora e che non hanno insegnato nulla a chi si riempie la bocca di argomentazioni multiculturali sull’integrazione e sul rispetto di presunte “identità culturali”. Per il rispetto dell’identità culturale di un individuo convinto di essere ancora in Pakistan, è morta anche Shafilea, nella civilissima Inghilterra, laddove però, nel silenzio dell’opinione pubblica internazionale, regnano sovrane le corti sharitiche, capaci in alcune zone o in alcuni ambienti, di prendere il posto della tanto rigida civil law britannica. E di creare danni immani, soprattutto per le donne e per le seconde generazioni. Shafilea scompare misteriosamente dopo un litigio con il padre, sempre relativo al rifiuto di sposare il cugino, e viene ritrovata un anno dopo in avanzato stato di decomposizione vicino al fiume Cumbrian. La madre, che inizialmente nega tutto, crolla in seguito e confessa che la vicenda era ormai andata oltre le semplici liti e che lei non aveva parlato finora perché il marito la massacrava ogni giorno da quando si erano sposati. Poi le minacce di morte a lei e ai figli se avessero ancora chiesto qualcosa e una sequela di menzogne, che dovrebbero mandare direttamente all’ergastolo chi si è preso la libertà di far scomparire una ragazza pensando che nessuno si sarebbe accorto della sua assenza. Frutto amaro della leggerezza con cui, non solo in Italia, ma in tutta Europa, si tratta la vicenda dell’integrazione e dell’accoglienza a tutti i costi. In cui si pensa, erroneamente e in qualche caso anche volutamente, che ogni cultura debba essere presa per com’è, in tutte le sue caratteristiche, senza scremare con dovizia quali aspetti possono o non possono essere accolti in una società civile. Voglio ricordare che Shafilea, prima di morire, aveva anche ingerito della candeggina per uccidersi, perché non voleva in nessuna maniera assecondare quella barbarie che è il matrimonio combinato con un parente. E anche qui la cecità delle autorità, di chi l’ha soccorsa, che non si è per nulla premurato di chiedere perché lo avesse fatto oppure di fermare quel padre che faceva del terrorismo familiare una routine agghiacciante. 



La responsabilità, mi duole dirlo, non solo in Inghilterra ma dovunque ciò accada, è tutta e solamente in capo a chi ha il dovere di reprimere questi fenomeni. A una certa politica in primis, che ancora vagheggia di una società immaginaria in cui la libertà di culto corrisponde al niqab, in cui la libertà di autodeterminarsi corrisponde al matrimonio combinato, in cui gli usi e costumi corrispondono all’infibulazione. Poi quella società civile sorda e buonista che si bea delle chiacchiere da salotto radical chic, sulla necessità di espressione di ogni afflato culturale, quand’anche questo metta in catene una donna o una giovane che vuole essere parte integrante del Paese che l’ha accolta. O che semplicemente voglia essere libera. Di Shafilea ce ne sono migliaia nascoste nelle case in cui abitano, ormai prigioni a tutti gli effetti, incatenate da padri e comunità talmente chiuse e infettate dall’estremismo culturale da non riuscire più a vedere che davanti a sé c’è una figlia o una moglie. Una lama pende sul collo di tutte queste povere ragazze, ormai imprigionate nel silenzio e che sono destinate, un giorno o l’altro, a fare la conoscenza con la violenza e con la morte. La società occidentale ha deciso, non comprendendo la responsabilità storica che si sta assumendo, di lasciarle sole. Forse solo quando l’estremismo omicida inizierà a colpire anche le figlie di chi oggi non vuole vedere, la coscienza collettiva si risveglierà, sperando che non sia così tardi da non poter più porre rimedio. Come è stato per Hina Saleem, per Rachida Rida. Jamila che non poteva andare a scuola perché troppo bella o Nosheen, ridotta in fin di vita perché rifiutava un matrimonio combinato. Ah, tanto per rimanere in tema, dal 9 luglio è sparita a Monza una sedicenne pakistana, Parveen Ayes, di cui non si hanno più tracce. Speriamo non abbia fatto la stessa fine, perché i presupposti appaiono tragicamente simili.

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