“I musulmani d’Europa vogliono interagire con gli altri europei e partecipare alla vita della società come membri a pieno titolo, ma si scontrano sistematicamente con diverse forme di pregiudizio, discriminazione e violenza che rafforzano la loro esclusione sociale”. E’ questa la conclusione che emerge da ricerche condotte da diverse organizzazioni internazionali e Ong e che il Consiglio d’Europa ha recentemente diffuso attraverso un comunicato. I musulmani, si legge ancora, sono divenuti la figura simbolica dell’“altro” nel discorso della destra populista in Europa. Alcuni partiti politici in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, “hanno utilizzato la retorica antimusulmana per fini elettorali. I politici fanno di sovente riferimento ai musulmani quando discutono del presunto “fallimento del multiculturalismo”. Eppure sono rari i Paesi che hanno sperimentato il multiculturalismo come strategia destinata a promuovere il dialogo interculturale preservando nel contempo le identità culturali”. Secondo il Consiglio d’Europa, quindi, “i governi dovrebbero abbandonare leggi e misure che prendono di mira i musulmani e vietare la discriminazione basata sulla religione o sulle convinzioni in tutti i settori”. Dovrebbero inoltre “permettere a dei mediatori e a organismi indipendenti di promozione dell’uguaglianza di esaminare le denunce, di fornire assistenza legale alle vittime e di rappresentarle in sede di giudizio, di partecipare all’elaborazione delle politiche e di condurre ricerche sulla discriminazione nei confronti dei musulmani e di altri gruppi religiosi”.
E’ quindi giunto il momento, conclude la nota, “di riconoscere che i musulmani sono parte integrante delle società europee e che hanno diritto all’uguaglianza e alla dignità. Pregiudizi, discriminazione e violenza non fanno altro che ostacolare l’integrazione. Abbiamo bisogno di una ‘primavera europea’ per eliminare le antiche e nuove forme di razzismo e intolleranza”. IlSussidiario.net commenta quanto affermato dal Consiglio d’Europa insieme a Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale nell’Università di Perugia.
Professore, come giudica l’appello lanciato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa?
Il richiamo mi pare giusto per due ordini di motivi. E’ corretto perché nessuno, né in Europa né altrove deve essere discriminato per le sue convinzioni religiose. Inoltre è vero che esistono movimenti xenofobi, tipicamente di destra, per i quali l’islamico è diventato sinonimo dello straniero, del nemico. Detto questo, però, mi pare che il richiamo del commissario europeo rappresenti, nel suo linguaggio virtuoso, più un’operazione di immagine che di sostanza.
In che senso?
Nel modo come configura il problema. Che cosa significa: “E’ arrivato il momento di accettare i musulmani…?”. Certo che i musulmani devono essere accettati. Personalmente, e non da oggi, sono sempre stato favorevole all’entrata della Turchia, a certe condizioni, in Europa. Ma i musulmani entrano in Europa innanzitutto in quanto uomini, portatori di diritti e di doveri, e come tali devono essere trattati. Diversamente si favorisce, con le migliori intenzioni, non l’integrazione ma il tribalismo religioso, il settarismo. E’ quanto è accaduto in Inghilterra con il modello interculturale il cui risultato è la formazione di sacche integralistiche ai limiti della violenza.
Il processo di integrazione europeo può definirsi concluso? Quali sono i Paesi esemplari?
In ogni Paese a forte tasso di immigrazione ci sono aspetti positivi e negativi. Il ché è quasi inevitabile. In Germania milioni di turchi hanno trovato condizioni di vita e di lavoro più che dignitose. Però vivono in mondi separati rispetto ai tedeschi che frequentano ogni giorno. In Francia la legge sulla cittadinanza tratta tutti, sulla carta, in modo eguale. La diversità emerge sul piano sociale, come dimostrano le rivolte parigine delle banlieues. Il modello francese, fondato sui diritti e doveri dell’uomo, di per sé non è sbagliato. Rischia, però, di divenire ideologico quando vieta i simboli religiosi, o, addirittura, lo chador. Quando intende la laicità come mera neutralizzazione delle differenze. Il divieto del velo integrale è giusto nell’ambito di lavoro o scolastico, dove vige l’obbligo del riconoscimento. Ma lo chador non è il velo integrale, è solo un segno di appartenenza ( o di gusto) e come tale va rispettato.
Quale compito dovrebbe avere la scuola in questo processo di integrazione?
La scuola e l’università sono i luoghi privilegiati dove formare persone capaci di rispetto e di genuina tolleranza. Negli stessi Paesi arabi o musulmani le scuole cattoliche hanno svolto storicamente questo ruolo con le classi miste di cristiani e musulmani. Nella scuola nascono legami di amicizia che durano una vita. A partire da qui le giovani generazioni di immigrati possono trovarsi “a casa”, uscire dall’isolamento, ideale e culturale, in cui spesso si trovano, e non certo per colpa loro, i genitori venuti in Europa per lavoro. Allo scopo non si tratta di realizzare un modello educativo che neutralizzi le tradizioni di appartenenza – così come è accaduto per i simboli del Natale scomparsi in molte scuole materne ed elementari in Italia – ma di valorizzarle in senso positivo, non come affermazioni di un’identità antagonista. Il desiderio di dialogo e di incontro tra diversi, maturato a scuola, può e deve trovare poi ambiti di espressività propri, deve raggiungere una dignità culturale in modo da mettere radici, diventare matura. Ho presente l’esperienza di “Yalla Italia”, il blog delle seconde generazioni di musulmani in Italia, nato intorno alla rivista Vita. Un’esperienza interessante, direi un modello da proporre ed imitare.
Si legge che “non solo certi partiti di estrema destra e populisti stanno utilizzando una retorica anti-musulmani per guadagnare terreno con l’elettorato, ma vengono introdotte leggi e misure restrittive nei loro confronti”. Le risulta?
Ma in Italia, per fortuna, la retorica anti-musulmana non ha trovato, a parte il leghismo più retrivo, terreno fertile. Le misure restrittive hanno riguardato l’immigrazione e in questo campo, per la verità, durante il periodo degli sbarchi massicci a Lampedusa non mi pare che la Francia di Sarkozy si sia dimostrata molto più fraterna dell’Italia con i migranti alle frontiere. Il vero nodo da sciogliere riguarda il diritto di cittadinanza. E’ questo che sta più a cuore alle seconde generazioni perché la possibilità dell’integrazione passa da lì. E’ giusto che esso non sia automatico – non basta “nascere” in un Paese per diventarne cittadino – ma non deve nemmeno essere rimandato all’infinito o, pretestuosamente, bloccato per futili motivi.
Dagli attentati terroristici dell’11 settembre, l’opinione pubblica “collega in modo inscindibile i musulmani al terrorismo”. Si può considerare questa data come il punto di svolta di un particolare pensiero nei confronti del mondo musulmano?
Certamente l’11 settembre ha generato, in Occidente, una visione profondamente negativa del fedele islamico. Essa ha offerto la sua legittimazione alla ideologia “Teocon” che ha segnato la presidenza Bush e ha contribuito ad avallare la guerra in Iraq. E’ stato Giovanni Paolo II che ha impedito l’ideologizzazione mondiale del conflitto, l’idea della crociata con l’Occidente “cristiano” in guerra contro l’Islam. In realtà c’è un aspetto della questione da noi poco considerato.
Quale?
L’11 settembre è stato un dramma non solo per i poveri morti delle Twin Towers ma anche per la maggior parte dei musulmani non islamisti che non si riconoscevano nell’immagine, violenta e sanguinaria dell’Islam offerta dai seguaci di Al Qaeda. Si sentivano guardati con sospetto, in Occidente, per colpe che non avevano commesso. Possiamo dire che, a seguito di ciò, è nato un ripensamento, interno al mondo islamico, ricco di prospettive interessanti. La stessa primavera araba ne è, in qualche modo, per lo meno nelle sue espressioni giovanili, un frutto evidente. Al fondo v’è la grande sfida del rapporto tra Islam e modernità, Islam e libertà fondamentali. E’ su questo terreno che può e deve avvenire l’incontro tra le seconde generazioni e la parte migliore della tradizione europea.
(Claudio Perlini)