La lettera che segue è stata spedita dal suo autore, Francesco Fusco, giornalista, 76 anni, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 13 luglio del 2008. Non ha mai ricevuto risposta. Fusco, vittima di due ingiuste detenzioni, assolto due volte per reati addebitatigli e mai commessi, è morto a Milano il 22 luglio scorso.
Illustre Presidente,
Mi duole disturbarla, ma è la stima che nutro nei Suoi confronti che mi spinge a scriverle. La mia non vuole essere né una petizione, né una richiesta di aiuto o di intervento a mio favore. Le chiedo soltanto di leggere una storia che potrebbe essere illuminante per Lei quale Presidente oltre che della Repubblica anche del CSM, l’organo che dovrebbe governare la buona gestione della Giustizia.
A scanso di possibili equivoci che potrebbero sorgere (come è già avvenuto con il Suo predecessore) non le sottopongo questa storia perché Lei debba o possa fare qualcosa da cui io potrei trarre vantaggio. Vorrei chiarire a una Persona che stimo, e che ritengo sa interiorizzare quanto gli viene esposto, e riporlo nella memoria per trarlo fuori quando deve affrontare delle difficili decisioni, come e perché tanti Italiani, cittadini comuni come me, non hanno più fiducia nella Magistratura.
Comincio con il dire chi sono: mi chiamo Francesco Fusco, sono nato nel 1936, faccio il giornalista, sono iscritto all’ordine dei professionisti dal 1964. In precedenza come “abusivo” ho lavorato al quotidiano “Espresso Sera” con il compianto Giuseppe Fava (con il quale ho collaborato all’inchiesta sulla mafia pubblicata da il settimanale “Tempo” di Tofanelli), ho collaborato con diverse inchieste contro il malaffare per il quotidiano “Il Tempo” di Roma, poi sono diventato caporedattore del quotidiano della sera di Palermo, “Telestar” fino al 1967, e infine freelance a New York. Poi nel 1971 ho abbracciato la carriera di dirigente industriale, quindi di consulente di alta direzione aziendale, e infine sono stato chiamato, nel settembre del 1989, come direttore centrale per le Relazioni esterne e i Rapporti istituzionali nella società Agusta S.p.A. del gruppo Efim. La mia assunzione venne decisa dal Presidente della società, Roberto D’Alessandro, che mi conosceva professionalmente. Non ho tessere, non ho mai fatto politica di nessun genere, né ho mai avuto protezioni o referenti politici di alcun tipo o schieramento. Proprio questa mia assenza di legami o dipendenze ideologiche determinò l’approvazione della mia assunzione da parte dell’Efim, e successivamente mi consentì di svolgere con successo il mio compito a favore dell’azienda.
Poi è arrivato il settembre 1992, e sulla base di una lettera anonima il pm di Roma Antonio Vinci incarica la Guardia di Finanza di indagare su di me e l’azienda per supposte tangenti. La Guardia di Finanza compie le sue indagini e alla fine mi dichiara che non è risultato niente a mio carico. Frattanto, nel mese di novembre lasciavo l’Agusta perché richiamato, con condizioni economiche molto migliori, dall’azienda presso la quale avevo svolto il mio lavoro di dirigente per dodici anni. Tralascio altri particolari per arrivare alla vigilia di Pasqua del 1993. Mi trovavo a Parigi con la mia famiglia, quando attraverso un telefonata di mia suocera e il TG1 scopro di essere ricercato perché il pm Antonio Vinci ha spiccato un mandato di cattura nei miei confronti “per estorsione” nei confronti della società Siam leasing, alla quale l’Agusta aveva venduto 12 elicotteri (andati poi alla Protezione Civile con compiti antincendio). Venivo a conoscenza del “crimine” di cui venivo accusato soltanto dopo, una volta finito a Regina Coeli.
Infatti, appena appresa la notizia di essere “ricercato”, il lunedì dopo Pasqua mi premuravo di inviare un telegramma al pm Vinci, indicandogli dove mi trovavo e perché, e informandolo che il giovedì successivo mi sarei presentato nel suo ufficio al Palazzo di Giustizia di Roma. Accompagnato dai miei legali mi presentavo puntualmente, come promesso al pm Vinci. Il quale, dopo avermi fatto attendere, senza neppure rispondere al mio saluto esordì con le parole “mi dica”. Non sapendo cosa volesse sapere, chiesi a proposito di “che”. La risposta del pm fu l’ordine di trasferirmi a Regina Coeli e di consegnarmi il mandato di cattura dal quale prendevo finalmente visione del reato contestatomi. Ora credo di essere nel giusto chiedendomi se non vi siano state violazioni del Codice di procedura penale per i motivi che di seguito espongo:
1- l’inchiesta era nata da un anonimo (in violazione del Codice di procedura penale);
2- essendomi costituito- malgrado fossi già all’estero – non esisteva il pericolo di fuga;
3 – avendo lasciato l’Agusta più di sei mesi prima non sussisteva la possibilità di reiterazione del reato;
4 – per lo stesso motivo era labile la possibilità di inquinamento delle prove (peraltro inesistenti).
E allora, perché la custodia cautelare in carcere? Non ne esistevano i presupposti legali.
Il mio interrogatorio venne compiuto dopo due giorni di carcere, e durò solo 27 minuti, con minacce di altri addebiti perché “tentavo di offendere la loro intelligenza”, dai pm AntonioVinci e Francesco Misiani. Il mistero mi venne svelato due giorni dopo dal gip De Luca Comandini, il quale, dopo avermi interrogato, ammise che il mio arresto “era pretestuoso. I pm volevano sapere altro…” e disse al mio legale di preparare subito la richiesta di scarcerazione, che lui avrebbe accolta. Tale richiesta venne mandata dal gip ai due pm per il parere, ma questi lasciarono passare una settimana prima di esaminarla, e solo dopo che il mio legale, visto che i due negavano di averla ricevuta, ne reperì copia in cancelleria: i due dettero parere negativo, e convinsero De Luca Comandini a inviarmi ai domiciliari per 60 giorni.
Alla fine di quel periodo, ripresi servizio presso l’azienda nella quale ero stato chiamato e per motivi di lavoro mi recai negli Stati Uniti. Qui appresi che un nuovo mandato di cattura era stato emesso dagli stessi pm. Naturalmente il mio legale si recò presso il gip, con il quale concordò che io facessi ritorno in Italia subito dopo Pasqua (era il 1994) e mi consegnassi a lui, che mi avrebbe messo subito in libertà come aveva fatto con Carlo De Benedetti. Cosa che mi venne riferita telefonicamente da mia moglie. La telefonata venne intercettata, con il risultato di una sfuriata dei due pm al gip per quella promessa, e una richiesta di estradizione inoltrata al Governo federale degli Stati Uniti. Venivo arrestato dai federali all’aeroporto di Atlanta, dove mi ero recato trovare il presidente della Georgia Pacific (cliente delle aziende americane del gruppo italiano di cui ero presidente e amministratore delegato). Mi venne consegnato il nuovo mandato di cattura emesso (il reato di estorsione era sparito) per un reato inesistente, vale adire “per corruzione di persone non ancora identificate”. In altre parole ero un corruttore ma non si sapeva di chi. Lo si voleva scoprire con la tortura del carcere! Malgrado la resistenza del mio legale americano, che riteneva “risibile” sia quel mandato che la richiesta avanzata dai due pm, accettavo subito l’estradizione. Passavo però due giorni nella prigione federale (con catene ai polsi e ai piedi) e una nel carcere dello sceriffo, pagavo il trasporto mio e dei federali fino a New York dove mi attendevano due ufficiali, uno della GdF e uno dei CC, e alla vigilia di Pasqua arrivavo nuovamente a Roma, tradotto a Regina Coeli. Stesso rito di prima, interrogatorio senza esito, e un messaggio inviatomi da Vinci tramite il mio legale: “faccia un nome di un corrotto e lo mandiamo subito a casa, libero”. Frattanto si era provveduto, senza alcun esito, alla perquisizione della mia abitazione, del mio ufficio romano, dell’abitazione della mia ex segretaria, e a rogatorie internazionali che non producevano alcun esito. Venivo, dopo altri quindici giorni in carcere, inviato ai domiciliari per altri 60 giorni. Successivamente il pm Vinci veniva condannato in primo grado per concussione a un anno e 4 mesi, e poco tempo dopo arrestato perché si erano scoperti tre miliardi di lire su un suo conto in Svizzera! Veniva subito mandato ai domiciliari (che diversità di trattamento rispetto a un cittadino comune) dove durante la notte si spegneva misteriosamente. Frattanto era stata chiesta per tre volte la reiterazione delle indagini preliminari. Tenga presente che non mi sono mai opposto a nessuna iniziativa giudiziaria.
Il processo iniziava nel 1995 e si concludeva dopo sette anni in primo grado, su richiesta del nuovo pm (anche Misiani dopo lo scandalo del bar Mandara con Squillante aveva dovuto lasciare la magistratura), dopo l’escussione di numerosi testi, la mia dichiarazione spontanea e il consenso ad essere interrogato dal pubblico ministero, con l’assoluzione, passata subito in giudicato, “perché il fatto non sussiste”. Frattanto, oltre all’umiliazione mia e dei miei figli adolescenti, la perdita del lavoro, la sofferenza psichica derivante dalla “vergogna” che tutte le persone oneste provano quando finiscono in carcere, mi veniva diagnosticato un tumore maligno che richiedeva operazione immediata e radioterapia successiva.
Ma anche il tribunale di Milano si interessava a me. Il pm Antonio Di Pietro, che mi interrogò, tramite il suo maresciallo, come “indagato” per “non arrestarmi”, il quale tuttavia archiviava la mia posizione. Poi mi giunse come un fulmine a ciel sereno la richiesta di “rinvio a giudizio” nel processo Brancher e altri 93 imputati, per finanziamento illecito dei partiti e falso in bilancio. La richiesta veniva da Gherardo Colombo e Antonio Davigo. Naturalmente caddi dalle nuvole, visto che mi ero sempre rifiutato, meritandomi un corsivo dell’Unità che mi attribuiva come colpa il mio alloggio in albergo e il mio ufficio a palazzo Grazioli (che non era ancora di Berlusconi), perché mi ero rifiutato (come avevo fatto con tutti gli altri partiti) di contribuire alla Festa dell’Unità (quanta differenza dai due fondi di Frasca Polara scritti anni prima sullo stesso quotidiano definendomi “Un giornalista coraggioso”!). Il fatto che l’Agusta negasse di finanziare le varie feste era stato evidenziato anche in un servizio del settimanale Milano Finanza.
Mi presento all’udienza preliminare, presento la mia documentazione al pm, rispondo alle domande del gup, sottolineando tra l’altro che non facendo parte degli organi amministrativi non potevo essere accusato di aver falsato un documento che non era nelle mie competenze stilare. Alla fine dell’udienza lo stesso pm Colombo, mentre chiede per tutti il rinvio a giudizio, esclude me perché ”il fatto non sussiste”. Vengo lo stesso rinviato a giudizio. Colombo nell’introduzione chiede che venga prosciolto a meno che durante il procedimento non venga fuori qualche addebito o prova del reato. E poiché neppure gli ufficiali inquirenti della GdF sanno cosa dire (non ero stato neppure interrogato) nella requisitoria finale il pm chiede la mia assoluzione perché il fatto non sussiste. Richiesta che viene accolta dal Tribunale e passata in giudicato. Il processo milanese è stato più breve, per ragioni legali è durato solo tre anni. Ho chiesto la riparazione per il processo romano, per l’ingiusta detenzione, i danni fisici e morali, e la Corte d’Appello competente ha deliberato di rimborsarmi con soli 8mila euro. Solo le spese legali, i viaggi, l’operazione, la perdita del lavoro, ammontavano ad oltre un milione e mezzo di euro. Inoltre, secondo la legge, per ottenere quella piccola somma avrei dovuto pignorarla presso la tesoreria della Banca d’Italia, intentare un’altra causa che mi sarebbe costata più degli 8mila euro da recuperare. Ho preferito lasciar perdere.
Potrei raccontarle tante altre cose, altri incontri con la magistratura, risoltisi sempre a mio favore, non per correttezza del pm di turno, ma perché sono sempre stato onesto. Come la maggioranza degli italiani. Per i quali signor Presidente faccia qualcosa, eviti che finiscano nelle mani di persone che possono rovinare la loro vita come hanno fatto con me, eviti che la magistratura abbia a spargere tanta sofferenza. I pm soprattutto hanno un potere enorme nelle mani e nessuna responsabilità. Perché questo privilegio rispetto a tutti gli altri cittadini?
Mentre La ringrazio per la pazienza di aver letto questo mio sfogo fino in fondo, Le porgo, oltre ai sensi della mia più profonda stima, gli auguri per il proseguimento di un settennato felice.
Suo
Francesco Fusco
P:S. Tutti i media, anche internazionali, hanno dato notizia molto ampia della mia incriminazione e del mio arresto. Nessuna delle mie assoluzioni. Il marchio che è rimasto è quello della colpa, non quello dell’innocenza. Che ne pensa?