Si è tenuto ieri nella cattedrale di Brescia il funerale di Giuseppe Camadini, protagonista della vita sociale, economica e culturale di Brescia e non solo. Pubblichiamo l’omelia tenuta in occasione delle esequie dal Vescovo di Brescia Monsignor Luciano Monari.
C’è qualcosa di noi che rimanga oltre la morte? Qualcosa delle nostre scelte, delle nostre realizzazioni che possa essere considerato eterno? La domanda ci sale dal cuore tutte le volte che muore una persona che conosciamo o amiamo o stimiamo. L’uomo è per sua natura un creatore di pensieri, di decisioni, di azioni; egli vive sogni, paure, attese; attorno a lui si forma e cresce un mondo ricchissimo di relazioni, di gesti, di parole; ebbene, di tutto questo complesso vario e ammirevole che costituisce la nostra vita, rimane qualcosa? O tutto è destinato ad essere corroso e divorato dal tempo? Vita e morte si affrontano ogni giorno in un duello che sembra non avere tregua: c’è, ci sarà un vincitore?
Il dottor Camadini ha vissuto un’esistenza straordinariamente attiva, impegnata. Verso di lui Brescia e in particolare la Chiesa bresciana hanno un grande debito di riconoscenza per quanto egli ha fatto: sono numerose le istituzioni che lo hanno visto attore e protagonista nel campo dell’educazione, dell’informazione, dell’editoria, dell’economia, del diritto. La memoria di Paolo VI, il nostro Papa bresciano, gli deve molto per l’impegno serio di studio e di ricerca che da lui è stato promosso. Il dottor Camadini apparteneva a quella straordinaria tradizione di laicato cristiano che proviene dalla Valle Camonica, che tanta importanza ha avuto in passato e tanta continua ad averne oggi. Toccherà ad altri tracciare con precisione il profilo completo della sua vita e della sua molteplice attività. Noi, qui, vogliamo semplicemente benedire il Signore per quanto di buono ci ha donato attraverso il servizio di questo nostro fratello nella fede e riconsegnare la sua vita al Signore con fiducia e speranza piena.
Nella liturgia della parola ci è stato donato un annuncio ricco di speranza: “Le anime dei giusti – dice – sono nella mani di Dio… in cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati… li ha saggiati… li ha graditi come l’offerta di un olocausto”. La vita, dice il libro della Sapienza, porta con sé una inevitabile dose di fatica, di pena; ma è una pena relativamente breve, che ha presto un termine e che sfocia nel mistero infinito di Dio e della sua pace. La condizione perché questo passaggio avvenga è che l’esistenza dell’uomo possa essere presentata a Dio come un’esistenza provata, saggiata, gradita a Lui. Ma può la nostra povera esistenza, con tutte le sue opacità e le sue debolezze, essere gradita a Dio – a quel Dio così puro che i suoi occhi non possono sopportare il male? Chi può presumere di essere giusto agli occhi del Santo? Saremmo condannati alla tristezza e alla rassegnazione se Dio stesso non ci venisse incontro con l’abbondanza della sua misericordia: “La speranza, ha insegnato san Paolo, non delude, perché l’amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.
Se fossimo lasciati a noi stessi, la speranza potrebbe avere al massimo la lunghezza della nostra vita: alcuni anni, sempre troppo pochi. Ma l’amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori, ha umiliato il nostro orgoglio, ha purificato il nostro egoismo e ha dato forma dentro di noi a nuovi pensieri e desideri di bene, ha guidato le nostre scelte ponendo in esse, come motivazione, un amore senza ipocrisia: su questo amore di Dio per noi poniamo la nostra sicurezza. Quando ancora eravamo peccatori, quindi senza alcun merito, Cristo è morto per noi. Se Dio ha fatto tutto questo, se si è preso cura di noi fino al punto di donare il suo Figlio Unigenito, certo non lo ha fatto per poi abbandonarci a noi stessi e alla morte; se ci ha raccolti dentro al suo amore è perché egli vuole renderci partecipi della sua gioia. Le benedizioni del Signore non sono finite, non si estinguono col passare inesorabile del tempo; si rinnovano invece ogni mattina. E se il Signore ha benedetto la vita di questo nostro fratello, Giuseppe, anche ora che abbiamo davanti a noi il suo corpo senza vita continuiamo a credere che la benevolenza del Signore per lui continui; che il Signore lo accolga come servo buono e fedele. “Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli nell’amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericordia sono per i suoi eletti”. Il disegno di Dio sul mondo e sulla storia, il senso della vita e della morte, la speranza che va oltre la morte sono misteri che si aprono a chi li accosta con rispetto e amore, a chi pone un atto originario, libero, gratuito di fiducia nei confronti della realtà e di Dio creatore.
L’esistenza cristiana è esistenza nel mondo, fatta di lavoro e di fatica, di amore e di lotta, di progetti, speranze e delusioni, come l’esistenza di ogni uomo; ma l’esistenza cristiana è, nello stesso tempo, esistenza in Cristo, fatta di vangelo e di eucaristia, di fedeltà e di amore fraterno – una vita perciò che ci viene da Dio e tende a Dio. Se uno è davvero cristiano, il criterio supremo delle sue scelte non è il successo nel mondo, ma la conformità al vangelo, cioè alla parola di Gesù. Nella misura in cui l’esistenza cristiana viene da Dio e non si spiega col desiderio di ottenere ricchezza e gloria nel mondo, nella medesima misura la morte non riesce ad afferrarla e ad appropriarsene del tutto. Quello che c’è in noi di obbedienza al vangelo, di conformità a Gesù Cristo, di apertura a Dio, tutto questo sfugge alla presa della morte e ha già in sé il sapore dell’eternità.
Nel momento in cui presentiamo Giuseppe Camadini al Signore, contiamo esattamente su questo. L’elenco delle cose che egli ha fatto è impressionante, ma non è ciò che più conta. Conta il cuore di credente che egli è stato: conta il suo amore senza riserve verso la Chiesa, la sua devozione al papa e al vescovo – chiunque egli fosse –, soprattutto conta la sua fedeltà umile ai gesti semplici della vita cristiana: la preghiera del mattino e della sera, il catechismo, la Messa insieme a tutti, la comunione, i sacramenti. La vita cristiana è fatta dei banchi di Chiesa dove il ricco e il povero stanno gomito a gomito e pregano insieme; è fatta del confessionale dove tutti, piccoli e grandi, si inginocchiano per ricevere l’identica misericordia di Dio; è fatta del segno di pace sincero che si scambia con il vicino, forse nemmeno conosciuto. Qui il cristiano impara l’umiltà e il rispetto per tutti i fratelli.
Di questo stile limpido di vita cristiana posso dare testimonianza a favore del dott. Camadini. È stata una persona amata e rispettata, ma anche avversato e discusso: è il destino di tutti quelli che hanno responsabilità importanti e che non possono illudersi di poter piacere a tutti. Ma anche chi valutava le cose in modo diverso da lui doveva riconoscere il suo disinteresse, la sua dedizione al bene, alla Chiesa.
Per quanto mi riguarda, quello che ricordo con maggiore tenerezza sono alcuni suoi atteggiamenti di semplicità, come di bambino. Probabilmente questo apparirà strano a chi ha conosciuto solo il Camadini pubblico, quello dei Consigli di Amministrazione e delle decisioni ferme; ma, incontrandolo da vicino, c’erano momenti belli, in cui la commozione prevaleva e in cui il cuore si apriva a un sorriso limpido, senza difese. Momenti di semplicità che sono nello stesso tempo momenti di verità. Anche per questi momenti mi sento di affidare Giuseppe alla bontà e alla misericordia del Signore.
Scrive sant’Agostino al termine delle sue Confessioni: “Noi ora siamo mossi a fare il bene, dopo che il nostro cuore è stato rigenerato dal tuo Spirito…. Alcune nostre opere possono essere buone per i tuoi doni, ma non sono per sempre. Eppure dopo di esse speriamo di riposare nella tua immensa santità. Tu, Bontà a cui nessun bene manca, riposi eternamente, perché tu stesso sei il riposo… A te chiediamo, in te cerchiamo, a te bussiamo: così, così otterremo, così troveremo, così ci sarà aperto”. A pochi accade di morire con la consapevolezza di aver portato a perfetto compimento la loro opera; nella maggior parte dei casi la morte interrompe i nostri progetti e l’arco della vita sembra rimanere spezzato, incompleto. Ma tutto questo non deve produrre in noi avvilimento e malinconia; è piuttosto motivo di appello a Dio e di abbandono in lui.
A lui chiediamo che dia fermezza e solidità a quanto abbiamo compiuto; che porti a completezza quello che noi lasciamo imperfetto. Il Signore porti a compimento l’esistenza di questo nostro fratello e la sigilli col segno consolante della sua grazia. Noi ci fidiamo delle sue parole quando ci dice: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Vado a prepararvi un posto…. Verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”. Sono parole pronunciate durante l’ultima cena, quando i discepoli stavano per scontrarsi con l’apparente fallimento dell’opera di Gesù: prima che Gesù avesse potuto conquistare qualsiasi obiettivo, quando tutto era ancora incerto, la morte sembrava celebrare una vittoria piena. “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”. Ci aggrappiamo a queste parole nel momento in cui consegniamo a Cristo la vita del dott. Camadini e mentre riprendiamo il cammino tra la consolazioni dello spirito e le tribolazioni del mondo, teniamo davanti a noi l’immagine chiara della meta: “Del luogo dove io vado voi conoscete la via… Io sono la via, la verità, la vita”.