Recenti dati sul consumo di droghe in Italia riportano d’attualità quanto scritto di recente da Roberto Saviano su L’Espresso e da Umberto Veronesi su Repubblica. Infatti, da uno studio condotto dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano che ha monitorato le acque reflue di 17 città italiane, emerge chiaramente che l’uso di droghe cosiddette pesanti, come cocaina, eroina e metanfetamina è diminuito, mentre è aumentato quello di droghe come ecstasy e ketamina. Saviano e Veronesi, entrambi liberalizzatori, partono dalla considerazione degli effetti perversi derivanti dall’attuale legge penale: mercato clandestino e costi proibitivi alimentano il giro d’affari delle organizzazioni criminali, espongono i tossicodipendenti a comportamenti illegali, che a loro volta ingenerano devianza, degrado dei rapporti sociali, alimentando così una spirale perversa che finisce per allargare a dismisura i danni causati dall’uso delle droghe stesse.



Con la tragedia della tossicodipendenza e delle sue conseguenze (morte per overdose, abiezione personale e sociale, microcriminalità in crescita esponenziale nelle aree più degradate) facciamo i conti da anni. Da tempo la droga ha rovesciato i tavoli di ogni logica possibile, sovvertendo ogni ragione con le cifre aride dei fatti, fino ad instaurare un vero e proprio terreno di emergenza nel quale ogni silenzio appare complicità ed ogni proibizione risuona come irrealistica.



È tutto vero. Ma non si può non ricordare come e perché la droga da fenomeno elitario sia finita per diventare prassi condivisa da centinaia di migliaia di persone, rintracciabile in tutti i ceti sociali e in particolare nelle aree più degradate, dove ha finito con il produrre i fenomeni che Saviano riporta e Veronesi conferma.

Un tale fenomeno non sarebbe mai diventato comportamento diffuso se non fosse stato accompagnato da un’idea della droga come risposta plausibile e tutto sommato paternamente comprensibile ai disagi soggettivi. Non sarebbe la droga ad essere pericolosa, ma il suo uso sotto il peso del mercato illegale. In realtà, qualora fosse accompagnata da politiche di liberalizzazione, potrebbe non avere le conseguenze devastanti che attualmente riscuote sia sul piano individuale sia su quello sociale.



Ad una tale plausibilità dell’assunzione di droghe, ovviamente discutibile, si accompagna poi un vero e proprio falso ideologico, una vera e propria illusione: quella della compatibilità. La droga può rientrare nei liberi diritti del singolo quanto più, in realtà, è perfettamente compatibile con una vita normale ed uno stato di salute psicofisico assolutamente nella media. L’intera questione della liberalizzazione delle droghe e del conseguente diritto privato a drogarsi riposa sull’idea – tenuta in penombra e mai apertamente smentita – della compatibilità di molte droghe con un’esistenza normale, individualmente sostenibile, anche sul piano psico-fisico.

Ora non si può ignorare la potenza letale di questo mito, sul quale puntualmente cade il silenzio di coloro che, per professione, dovrebbero essere i più informati. È nel mito della droga compatibile, della droga come abitudine provvisoria e marginale, della droga come scelta reversibile e occasionale che vivono decine di migliaia di tossicodipendenti. Ci sono legioni di giovani e di adolescenti che ritengono che la droga sia una sostanza gestibile, potenzialmente controllabile. Lo stesso concetto di dipendenza è visto più come lo spauracchio di politiche repressive che non come il risultato di analisi scientifiche. In realtà per molti amanti delle “pasticche” del sabato sera, ciò che è fatale non è la droga, ma il suo uso distorto, irrazionale. Per molti di loro la droga è equiparata all’alcol: presa con moderazione e intelligenza non crea problemi.

Ora è sinceramente incredibile come ogni richiesta di liberalizzazione – qui inclusa quella di Saviano e di Veronesi – tenda a restare silenziosa su quest’aspetto che è comunque la parte decisiva del problema: la droga crea dipendenza e questa dipendenza conduce sempre a patologie e può avere, in molti casi, un esito fatale.

Quanto la richiesta di legalizzazione delle droghe della quale parlano, con indiscutibile buona fede, Saviano e Veronesi non finisce per alimentare un simile mito? Quanto una procedura legalizzata di acquisto non implichi di fatto una normalizzazione – ahimè fatale – dell’atto del drogarsi? Come si fa a non capire come quello che, ancora oggi, è giudicato come un comportamento patologico, pernicioso e potenzialmente autodistruttivo, una volta depenalizzato diventerebbe, nei fatti, una scelta personale, magari discutibile e anche pericolosa, ma comunque privata e reversibile, e proprio in virtù di queste caratteristiche, legale? Come si fa a non rendersi conto che, una volta legalizzato, l’uso di determinate sostanze psicotrope sarebbe equiparato – nella mente di tanti giovani assuntori – a quello di bevande alcoliche o di determinati psicofarmaci? La legalizzazione sarebbe di fatto un riconoscimento implicito del diritto del singolo a decidere della propria esistenza anche usando determinate droghe, magari dietro ricetta medica.

Qui il problema, al di là del piano morale sul quale non entro in merito, è certamente comportamentale. Non è possibile fingere di non sapere come il diritto alla droga, magari anche “privata e responsabile”, non farebbe che alimentare il mito del quale si nutrono migliaia di tossicodipendenti e decine di migliaia di sballati del sabato sera: quello della droga come di una sostanza gestibile, controllabile, quindi, sostanzialmente “innocua”.

Generazioni di tossicodipendenti hanno creduto e credono in questa favola della modernità avanzata. Le migliaia di morti per droga sono lì a dimostrare quanto questi presupposti oltre ad essere semplicemente falsi, illudano quote non marginali dell’universo giovanile ed adolescenziale.

La droga in farmacia, prescritta magari da un medico che, come il professor Veronesi, ritiene ancora che questa sia «la materializzazione del rifiuto dei ragazzi di una società violenta e ingiusta» sarebbe considerata, più o meno rapidamente, alla stregua di un semplice supporto farmacologico, una sorta di psicofarmaco da affiancare agli antidepressivi e agli ansiolitici. Ma se la droga dà dipendenza e quindi risulta, nei fatti, incontrollabile ed ingestibile, renderla legale significa occultarne scientemente questa dimensione letale. A ben poco varrebbero le campagne stampa, quando sarebbe proprio lo stesso farmacista che, tra sciroppi ed antibiotici, la consegnerebbe sul banco dietro la presentazione, ovvia, della liberante e ipocrita ricetta medica. La droga legale non farebbe che avvalorare ancora di più la falsa coscienza di chi crede, ancora oggi, che drogarsi sia un’operazione soggettivamente controllabile e quindi reversibile.

Purtroppo le cose non stanno così. La droga in realtà vincola e genera dipendenza in chiunque, anche tra quanti si ritengono bene informati e, per di più, sono muniti delle possibilità economiche per rifornirsi su mercati esclusivi, evitando la rischiosa droga da strada. Dietro lo squallore delle periferie piagate dall’eroina, esattamente come nei più esclusivi club nei quali si consumano droghe, c’è un’intera visione dell’uomo e della vita che hanno fallito e continuano a fallire. Di questo fallimento dell’esistenza la droga non è che la conseguenza finale e, per molti, fatale. Aggiungere allo squallore del fallimento di tutti e di ciascuno, il mito della “droga sostenibile”, e quindi proprio per questo legalizzabile, equivale a negare la realtà contribuendo a diffondere una menzogna pagata cara da centinaia di adolescenti.