Le recenti e rinnovate attenzioni sulla felicità, al di là dei risultati grotteschi provenienti dalle domande improbabili dei questionari, non sono affatto l’espressione di un’esigenza passeggera e di superfice, anche se è passeggero e inevitabilmente superficiale l’interesse (tipicamente estivo) che vi riservano i media. In realtà il problema del diritto alla felicità è al cuore della modernità come processo culturale (ma anche politico) e costituisce una delle conseguenze principali del percorso di secolarizzazione che attraversa la società occidentale. 



Credo che si debba riconoscere al Pascal Bruckner di L’Euphorie perpétuelle il merito di aver identificato in modo chiaro una tale contraddizione. In un universo del quale Dio non è più responsabile e in una società nella quale questi non ha più alcun ruolo è l’uomo, l’homo faber, ad essere il solo ed intero artefice del proprio destino e quindi della propria stessa felicità. Con la separazione da Dio l’avventura umana si percepisce come svincolata da qualsiasi limite, libera da qualsiasi impaccio verso la propria realizzazione. Ma se la felicità è realmente perseguibile, se non è ferita né minata da una qualsiasi humana conditio, se essa diviene un diritto per tutti, perseguirla non solo è giusto ma anche ragionevole. L’illuminismo, liberandosi della dottrina agostiniana della corruzione assoluta della natura umana, fa della ricerca della felicità uno dei diritti fondamentali dell’uomo-cittadino. L’epoca della rivoluzioni, lungo il crinale tra il XVIII ed il XIX secolo, segna infatti l’inizio del droit au bonheur: la ricerca della felicità diventa diritto fondamentale dell’uomo e si pone al cuore dell’esistenza delle nascenti democrazie liberali.



Inizia così una ricerca, privata e personale, della felicità: unico vero obiettivo di ogni progetto a lungo termine. Un obiettivo tanto più comprensibile quanto più il soggetto è oramai definitivamente separato dalla speranza di riscattare le pene dell’al di qua con le beatitudini dell’al di là: nel mondo moderno la felicità non è rinviabile, diviene un obiettivo da perseguire e da concludere nell’arco della sola esistenza mortale, l’unica della quale si è certi. Nell’orizzonte di quest’ultima, la ricerca della felicità diventa un vero e proprio motore dell’azione, la vera utilità attesa che si cela dietro l’inizio di un lavoro, l’insediarsi di un’unione stabile, la nascita di un’amicizia, la messa a punto di un progetto di vita.



Il porre dietro ogni scelta non momentanea la felicità come reale posta in gioco rende sempre più esigenti: lavoro e affetti, luoghi e amicizie sono prima o poi chiamati a rendere conto della loro capacità a collaborare alla costruzione della nostra felicità privata. Un lavoro che non si rivela funzionale ad un tale progetto, una relazione affettiva che non partecipi di questa tensione, un’amicizia che non contribuisca all’edificazione di una tale prospettiva sono immediatamente sospettati di contribuire all’infelicità e, proprio per questo, sono portati avanti con fatica, perplessità e sono lasciati cadere, non appena si manifesti la possibilità concreta di farlo e i costi ci appaiono ragionevolmente sopportabili.

Se la felicità diventa un obiettivo concretamente formulabile, la felicità mancata, che nell’universo culturale pre-moderno era rinviata al carattere imperfetto della natura umana, diventa anch’essa la conseguenza di azioni e scelte dell’individuo. Esattamente come la felicità, anche l’infelicità appare il risultato di processi umani, dei quali qualcosa, o qualcuno, è artefice e quindi responsabile. L’uomo che persegue liberamente la propria felicità è anche, in ultima analisi, il responsabile della propria infelicità.

Si spiega così come, accanto all’emergere di una manualistica per il benessere psico-fisico, si affermi una pubblicistica di guide, consigli e istruzioni per la costruzione della propria felicità. Questa, alla pari di un fisico tonico, è il risultato di un attento lavoro su sé stessi, sulle proprie emozioni, sulle proprie aspirazioni. Così, accanto ai simboli di status, ai consumi ostentatori, al pieno controllo del proprio tono muscolare si aggiunge oggi la qualità del proprio umore, del proprio carattere. Dal momento che l’essere felici è il risultato di una strategia efficace – proprio come può esserlo l’avere un corpo in perfetta salute – la felicità diventa la prova regina del proprio successo, il segnale chiaro (e pubblico) della propria realizzazione. Un persona di successo non può permettersi l’infelicità se non rivelando il proprio personale fallimento, ammettendo la propria partita persa con l’esistenza. 

È abbastanza facile vedere dove finisce con il condurre una simile prospettiva: se la felicità diventa un dovere sul quale si è sempre di più misurati e valutati, il raggiungimento della propria personale felicità autorizza qualsiasi strategia. Tutto diviene allora possibile, anche la riduzione della felicità stessa alle sensazioni ed alle emozioni che ne simulano l’esistenza. Ciò appare plausibile, anche quando queste riduzioni sono provocate da protesi chimiche: sostituti di una relazione che non c’è, riempitivi di un’assenza significativa, di un’affezione mancata.

Ci sembra allora possibile affermare come la ricerca moderna della felicità, liberandosi dal concetto di peccato originale, abbia di fatto mascherato la natura profonda dell’essere umano, abbia truccato le carte mentendo sul codice esistenziale di quest’ultimo: quello di una natura imperfetta che si completa solo attraverso l’incontro con l’altro ed il conseguente dono di sé. La modernità ha mascherato con l’immagine dell’uomo artefice della propria fortuna un soggetto che invece dipende dalla relazione che instaura con un altro per lui significativo ed è quindi costantemente e inevitabilmente ferito da ogni relazione mancata, da ogni assenza significativa. 

Se l’essere umano aspira alla felicità, questa non è mai nelle sue mani ma dipende sempre da una relazione significante, con tutte le sue inevitabili intermittenze (e quindi con gli inevitabili momenti di infelicità) che questa comporta. È una tale dipendenza che diventa ferita inguaribile quando l’altro è assente, quando la relazione non è più presente ma solo ricordata. Emanciparsi da una tale ferita significa dimenticare, coprire l’assenza dell’altro con l’oblio: ma è proprio questo ciò che l’essere umano si è rifiutato sistematicamente di fare trasformando il ricordo momentaneo in volontà di memoria. Vivere nella coscienza della dipendenza dall’altro e nella consapevole mancanza di questi quando scompare, custodendolo nella nostra memoria ed ammettendo di esseri feriti dalla sua assenza, è l’unico modo che conosciamo per essergli degni. Emanciparsi da una tale ferita, mimare la propria autonomia edificando una felicità indipendente da qualsiasi relazione significativa che ci possa legare e dalla quale finiremmo necessariamente con il dipendere, è semplicemente illusorio e inevitabilmente fatuo, come possono esserlo certe vacanze.