François Hollande stringe i tempi per i matrimoni gay e per le adozioni da parte di coppie omosessuali, lasciando trasparire tutta la debolezza di un riformismo “ideologico”, che da azione politica di tutela e protezione delle fasce deboli della società sposta il tiro sull’accondiscendenza ad élites culturali che individuano il progresso del XXI secolo nell’annullamento della dimensione naturale delle relazioni umane. Il tema dell’adozione per le coppie gay è in questo senso centrale, non più una mamma ed un papà per il bambino in formazione, ma il modello – biologicamente sterile e indifferente alla complementarietà maschile e femminile – della coppia di genitori dello stesso sesso. 



La vicenda, come fu per la Spagna di Zapatero, apre uno squarcio sulla tenuta di valori e fondamenti degli ordinamenti occidentali che radicano nella famiglia coniugale il primo nucleo sociale della comunità nella quale si vive. 

E’ in atto la confutazione del paradigma che da millenni lega il matrimonio alla diversità di sesso tra i coniugi. La tesi demolitoria sostiene che poiché il diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali, come l’orientamento sessuale, con conseguente obbligo per lo Stato d’intervenire in caso d’impedimenti al relativo esercizio. Pertanto, stante il principio, comunitario e costituzionale di vietare irragionevoli disparità di trattamento, la norma implicita, civilistica, che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, così seguendo il proprio orientamento sessuale, non avrebbe giustificazione razionale. Si osserva in questa direzione che il significato di famiglia, lungi dall’essere ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile, si è al contrario dimostrato permeabile ai mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul regime giuridico familiare. Una volta escluso che il trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa trovare fondamento nella tutela della famiglia fondata sul matrimonio, non vi sarebbe un ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso. 



In questa temperie culturale, appare allora proficuo tornare ad investigare sul valore del sistema normativo positivo nel suo complesso quale luogo imprescindibile di verifica delle diverse soluzioni giurisprudenziali. L’argine al positivismo imperante, rappresentato dal riconoscimento di una vicenda umana pregiuridica, la persona, la sua dignità, la sua intangibilità, pare oggi cedere il passo alla positivizzazione di regole che proprio l’artificialità congenita del diritto implica come davanti alle decisioni che coinvolgono la sfera più profonda dell’individuo il diritto debba farsi “mite”, ovvero non possa “intralciare” decisioni che competerebbero alla c.d. autodeterminazione del singolo, e ciò a prescindere dalle valutazioni etiche e morali della comunità. 



Ma è proprio così? C’è un macigno di ordine logico-giuridico, ma direi anche storico-morale che dovrebbe far riflettere chi sbrigativamente – come il presidente francese – indica facili soluzioni normative alla questione omosessuale.

Non sembra possa esservi alcun dubbio, infatti, che, in uno Stato di diritto, le questioni interpretative non possono risolversi sulla base di semplici opzioni di ordine valutativo, puramente individuali ed estranee a qualsiasi forma di controllo obiettivo. Non può esservi dubbio, insomma, che l’obbedienza richiesta all’interprete nei confronti del dato positivo debba essere pur sempre, per dirla con un’efficace e fortunata espressione di Philipp Heck, un’obbedienza (non cieca, ma) “pensosa”, “riflessiva”, e cioè costantemente attenta a cogliere le opzioni di ordine valutativo del legislatore e a tenerne adeguatamente conto anche nella soluzione dei casi non espressamente regolati. L’idea che sembra doversi respingere fermamente è, in altri termini, quella secondo cui la complessità sociale e il pluralismo dei valori abbiano messo ormai definitivamente in crisi qualsiasi aspirazione sistematica del giurista. 

Il tema coinvolge un quesito che interessa anche l’ordinamento italiano: esiste un diritto progressivo senza barriere nazionali che a colpi di maggioranze condizionate da una visione che si è definita di riformismo ideologico, comporterà che anche il diritto civile italiano dovrà cedere all’annientamento del criterio della distinzione di sesso in maschile e femminile ai fini della legittimazione a contrarre matrimonio e subito dopo ad adottare minori?

Cruciale è a questo punto intendersi su cosa siano Persona e Famiglia, che per un giurista significa dedurne il loro statuto dalle soglie di tutela e, per chi vuole confutarne tale statuto, accettare che ciò significa mutarne radicalmente il loro significato giuridico e sociale. Alla tutela della prima sono attribuiti diritti assoluti, che cioè non si dirigono verso un oggetto, sono tutelati, come si dice, erga omnes, non seguono il paradigma delle res. Ma tra questi diritti assoluti della persona esiste un diritto a sposarsi? No. Il diritto civile affronta l’istituto matrimoniale nell’ambito di quelle situazioni giuridiche che non trovano la loro fonte in un altro diritto soggettivo, ma si radicano in situazioni extra legem o meglio ante legem. 

In assoluta coerenza con tale constatazione, in Italia, l’art. 29 della Costituzione, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” e, con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare proprio che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere. Come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. 

Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa. Si deve confermare, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto. Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale. 

Dunque il richiamo ai principi di non discriminazione per le coppie gay, su cui si fondano le azioni politiche e normative di Hollande e Zapatero, quantomeno in Italia non apparirebbe centrato: se infatti è corretto ritenere che per tali coppie vadano garantiti diritti personali, certamente si tratterà di situazioni costituzionalmente di rango diverso da quelle familiari, che dunque sono in posizione privilegiata per espressa scelta dei Costituenti e non per questo possono far considerare “discriminate” le coppie gay che a tale soglia di riconoscimento e tutela non potranno accedere.