Tutti ne parlano secondo tonalità che vanno dal più bieco moralismo, sfumando attraverso l’alta e nobile indignazione istituzionale e l’improvviso sussulto della morale da bar, per arrivare fino alla più pelosa e compassionevole comprensione (“tutti siamo peccatori, quindi mettiamoci una pietra sopra”), saltando inequivocabilmente tutto ciò che invece sta nel mezzo. E ciò che sta nel mezzo non sarebbe tanto una possibile “terza via” nella considerazione della questione presente – aurea mediocritas – ma è proprio il fatto stesso, la persona, la persona e quindi (anche e insieme) l’atleta: Alex Schwazer.
Tutti pronti dietro la propria trincea – sembravano addirittura in attesa – a snocciolare acute analisi di natura sociologica, sportivo-culturale sugli effetti, sulle conseguenze, sul contesto circostante, con tutto il gusto, il sapore e la profondità, che solo la constatazione a posteriori sa portare con se’: l’ovvietà. Tutti accomunati dallo stesso impasse metodologico, l’astrazione – quando va bene – la non considerazione – come di solito avviene – del dato di realtà. E il dato di realtà è, o dovrebbe essere, l’unica cosa che si dovrebbe guardare, perché l’unica da cui si può imparare qualcosa, l’unica che veramente inter-essa, cioè che appunto sta nel mezzo, il cuore del problema.
Chi è Alex Schwazer? Cos’è la sua, quindi la mia, la tua vita? Perché e cosa lo ha spinto a fare quello che ha fatto? Che ne è del suo desiderio di ripagare i torti fatti, della sua esigenza di giustizia? Chi dei grandi intellettuali, chi dell’intelligentia, che contribuisce a edificare la nuova cultura dominante, chi ha iniziato a interrogarsi secondo questa prospettiva, cioè guardando integralmente e senza sentimentalismi di sorta, la sua e la propria “personalità“? L’uomo e il suo cuore sono un guazzabuglio, sono complessi e articolati, molto più di quanto la buona stampa voglia farci credere, che smembrandoli e tagliuzzandoli puntualmente, cerca di farli apparire come meccanismi anonimi e senza una destinazione e quindi drammaticamente facili da domare.
Ed è curiosa questa tendenza dei nuovi vati a schivare i veri problemi, questo timore nell’affrontarli fino in fondo, quasi più atterriti di chi quei problemi li deve affrontare ora e in prima persona; e già lo sta facendo sfidando il moralismo generale. Forse che mancano gli strumenti per farlo? Per quanto complesso l’uomo non è mai complicato. Risponde, se vogliamo, a una legge molto semplice, legge che non ha nulla di meccanico né di scontato, ma che ha nel desiderio di una letizia perenne e stabile il suo motore. È questo che spesso, e forse non troppo involontariamente, i potenti si dimenticano, patrocinando e pubblicizzando un’idea della giustizia totalmente astratta e avulsa dal suo compito originale, neutrale quindi disumana, che nella sua ansia di pura correttezza decide di trascurare, smussare la complessità del dato, solamente sognando “sistemi talmente perfetti che nessuno avrebbe più bisogno di essere buono”, tutta tesa a trovare un capro espiatorio da crocifiggere.
Giustizia che invece nella sua natura è risposta a un inestirpabile bisogno mio, tuo, di Schwazer, e che nella sua formulazione umana trova o dovrebbe trovare un’applicazione, per quanto ironica e parziale, ma corrispondente. È veramente giustizia quella che muove e agisce a prescindere e dimenticando questa naturale tensione della persona? Ed è perciò ragionevole nella sua attuazione, che pretenda di ignorare la totalità delle componenti in questione?
È proprio questa tensione costitutiva dell’umano che emerge drammaticamente dalla figura di Schwazer, apparso così solo e privo di strumenti di fronte a questa incombenza così radicale, manifestata in lui dalla ossessiva ricerca della riuscita, nella quale aveva posto e immaginava la sua totale consistenza, un sogno. Un sogno incanta, di certo non incarna. L’assunzione di sostanze dopanti, in fondo, non è stato altro che un modo di rispondere a questo bisogno di giustizia, di farsi cioè giustizia da solo, di alimentare un sogno che iniziava a stargli stretto.
Ma è solo una prospettiva che abbia il coraggio di stare di fronte, anche smaliziata, a tutto il male, il peccato, il dramma (ma anche all’immenso bene) di cui è capace l’uomo, senza inevitabilmente scartarlo, che può competere con la pesantezza che Schwazer si sente addosso ora, e quindi anche nel tempo vincerla, uno sguardo del genere, perché cosciente della sua irriducibilità. Ed è solo guardando le cose da un’angolatura del genere, che è possibile valutare integralmente e dare fino in fondo le ragioni di un fatto come questo, senza scadere in buonismi o moralismi di sorta, guardando tutto fuorché il fatto in questione. Ma questo e’ un dono che si trova cercandolo, chiedendolo. Del resto qualcuno diceva: dalla Grazia, l’audacia; dalla Natura, il terrore.
(Giacomo Fornasieri)