Ha fatto bene Vittorio Messori a rivangare sulle colonne del Corriere della Sera quell’episodio degli inizi della sua storia professionale di giornalista: per chi non avesse letto l’articolo, Messori ricorda come nella Torino inizi anni 70 avesse scoperto per caso la prima iniziativa di autorganizzazione di un gruppo di omosessuali (era il FUORI di Pezzana) e avesse proposto al suo capocronaca di fare subito un articolo. Il rifiuto secco e la risposta irridente del suo superiore sono rimasti nella memoria di Messori: del resto erano anni in cui anche il Pci non andava tenero con gli omosessuali (“sono ricattabili dalla polizia”, era l’alibi; Pasolini, com’è ben noto, nel 1949 era stato espulso dal Pci). Al feroce ostracismo di allora (anche linguistico: il capocronaca li definì, come d’uso, “invertiti”), si è sostituita l’allegra ipocrisia di oggi, in cui tutti si confessano da sempre liberi e aperti nei confronti delle ragioni degli omosessuali. Conformismo era quello di allora e conformismo è in fondo anche quello di oggi, dice Messori. Si seguono sempre le direttrici del potere culturale egemone.
Gli do ragione, anche se, non potendo, a quanto pare, scampare ai conformismi, preferisco comunque quello di oggi a quello di allora: la “gaytudine” per quanto arrogante e indisponente è meno peggio delle derive del moralismo autoritario.
Ma l’articolo di Messori mi dà spunto per un’altra riflessione, spero poco conformista. Per ragioni biografiche (sono nipote di Giovanni Testori e ho avuto modo di seguirlo da vicino in una stagione stupenda della mia vita) ho sempre avuto molte amicizie con persone omosessuali. Persone di ogni tipo: da quelle che non hanno nessun timore a dichiarare, anche un po’ narcisisticamente, la loro condizione, a tante persone semplici che invece vivono quella condizione con pudore e riservatezza, a volte anche con molte difficoltà. Quasi sempre ho scoperto in loro persone profonde, capaci di sguardi fuori dal comune, di una sensibilità oltre la media. Ne ho conosciuti tanti che vivono con immaginabile dolore la loro condizione di omosessuali e insieme di credenti, aiutandosi e sostenendosi reciprocamente nel cammino: come gli aderenti al gruppo Il Guado di Milano che da anni vivono tanti momenti comuni di riflessione e di confronti. Li tiene insieme una persona straordinaria, Gianni Gerace, di cui ho sempre ammirato la calma e l’umanità profonda.
C’è qualcosa che in loro che quasi sempre mi colpisce: è una sorta di inquietudine, un non sentirsi mai a posto. Non so se la cosa sia legata al fatto di non avere mai una possibile “normalità” davanti a sé. Infatti anche in chi sceglie convivenze, nel segno di un’affettività vera, matura e profonda, riscontro sempre la fatica di dover far fronte a un’oggettiva precarietà di questi rapporti.
Non voglio certo fare apologie di sorta. Ma voglio distinguere una condizione umana che ho avuto modo di conoscere da vicino, da quella vulgata idiota, modaiola e mediatica oggi dominante, che fa dell’omosessualità un tema mainstreaming. Dal punto di vista della condizione umana – che è la sola cosa di cui qui mi interessa parlare – nelle persone omosessuali mi è molto spesso capitato di riconoscere persone che si portano una ferita dentro. Che devono convivere con quella ferita, come accadde con sincerità drammaticamente assoluta a Giovanni Testori.
In una stagione in cui il potere vorrebbe avere a che fare con un uomo senza ferite e senza nostalgia, l’incontro con tanti amici omosessuali mi ricorda l’irriducibilità della ferita che ciascuno si porta dentro e della nostalgia per una compiutezza che comunque − e per chiunque − non è di questo mondo.