«Problemi di questo tipo non hanno mai un’unica causa». Esordisce così Antonio Calabrese, docente di Impianti Industriali Meccanici al Politecnico di Milano, commentando per ilsussidiario.net le conseguenze dell’eventuale stop della produzione negli stabilimenti dell’Ilva di Taranto da parte della magistratura. Si tratta di una premessa d’obbligo per poter comprendere sia i fattori che hanno portato alla situazione attuale sia i pericoli della ventilata fermata del «più grande impianto d’Europa» nella produzione dell’acciaio da minerali. «Questa vicenda deriva da uno stratificarsi di problemi del passato che ora è giunta a un punto di rottura», spiega Calabrese, «ma bisogna stare attenti a tutte le implicazioni delle decisioni che verranno prese».
Cominciamo da qui: che tipo di impianto è quello di Taranto?
È un impianto a ciclo integrale, diverso da quelli che producono acciaio derivandolo dai rottami ferrosi. Ciò significa che la produzione dell’acciaio parte direttamente dal minerale (ferro e carbonio) e, attraverso stadi successivi, si giunge ad ottenere prodotti come tubi, lamiere e coils ossia le bobine di lamiera. È un processo lungo e complesso, che richiede impianti di dimensioni maggiori. Pensi che l’Ilva è il più grande in Europa.
Che problemi comporta la fermata dell’impianto?
A parte un problema in termini occupazionali, che tutti possono comprendere, ce ne sono altri due: uno di natura tecnica e uno di natura, potremmo dire, economico-contrattuale.
Da dove cominciamo?
Anzitutto da un punto di vista tecnico, essendo il ciclo un ciclo integrato, non è che l’impianto si possa fermare dall’oggi al domani. In primo luogo perchè fermando l’area a caldo – quella dove si produce, bruciando il carbone, la ghisa da cui poi si ricava l’acciaio – si blocca a metà il processo produttivo, dovendo interrompere anche sia i processi a monte sia quelli a valle. In secondo luogo si tratta di impianti che sono progettati per funzionare ininterrottamente per otto o dieci anni. Intervalli nei quali possono essere effettuate manutenzioni ordinarie e straordinarie tramite interventi di una certa consistenza, come gli aggiornamenti tecnologici, e di efficientamento energetico che consentono il miglioramento delle procedure di depurazione dei fumi.
Non è dunque così semplice come appare “spegnere” l’impianto: quanto tempo occorre?
Certamente non basta pigiare un bottone. Per fermare un impianto di queste dimensioni ci vogliono settimane, se non addirittura qualche mese. È per via delle elevatissime temperature. L’impianto deve raffreddarsi secondo una progressione nel tempo tale da non creare rotture a causa delle dilatazioni per il caldo e delle contrazioni per il raffreddamento. Da quando si decide di fermarlo a quando si può “toccare con mano”, o eventualmente mandare qualcuno all’interno per fare ispezioni e controlli passano diverse settimane, anche mesi.
E per farlo ripartire?
Per ripartire bisogna in primis sostituire una serie di materiali, tra cui i refrattari dei forni; poi bisogna fare tutti i controlli del caso per verificare che non ci siano state rotture nelle diverse componenti, perché lavorando a così elevate temperature non è ammissibile che ci siano rotture o criticità anche solo minime. Pure in questo caso si parla di settimane o mesi. In totale, dalla fermata alla ripartenza, potrebbe passare più di un anno, tenendo conto di eventuali nuovi interventi.
E da un punto di vista economico quali possono essere le conseguenze?
Il funzionamento a regime necessita di essere alimentato con grosse quantità di materie prime che vengono acquistate sul mercato tramite contratti a più o meno lunga scadenza. Io non conosco la capacità di stoccaggio dell’Ilva, ma se uno ferma l’impianto, a un certo punto, si dovrà fermare anche l’approvvigionamento di materie prime. E da un punto di vista contrattuale bisogna vedere come si sono regolamentati. Oltretutto, considerando che sul mercato ci sono altri players che non hanno i propri impianti saturi e che possono dunque appropriarsi della quota di mercato che l’Ilva lascerebbe “libera”, non è detto poi che sia così automatico recuperarla una volta che l’impianto, dopo lo stop, sarà riavviato.
Da cosa dipende invece l’emissione di sostanze inquinanti, in questi giorni al centro delle discussioni?
Sicuramente non dipende dall’emissione di anidride carbonica. Nel senso che l’anidride carbonica emessa da qualsiasi impianto a combustione, e non soltanto quelli della produzione dell’acciaio, non può essere catturata perché non ci sono tecnologie adatte che lo permettono. Le emissioni di altri gas, come il monossido di carbonio e la diossina, convogliati nell’ambiente tramite cammini a uscita controllata (camini), invece, possono essere abbattute senza problema tramite l’utilizzo di appositi filtri (a manica, elettrostatici, a umido…). Su questo fronte si può fare tantissimo. Ma non è su questo che si è aperta la polemica a Taranto anche perché le emissioni sono in regola. L’Ilva inoltre ha fatto negli anni passati investimenti notevoli in termine di efficienza energetica e di automazione dei processi, riducendo al minimo la presenza delle persone nelle zone a rischio.
Dunque qual è il problema?
L’aspetto più critico è l’abbattimento degli inquinanti non convogliati, ossia le polveri rilasciate dal “parco minerali”, i magazzini dove sono stoccati i grandi quantitativi di minerali utilizzati durante il processo. E basta fare un giro nei pressi dell’Ilva a Taranto per rendersi conto di quante polveri di ferro si siano depositate nel tempo.
Cosa si può fare di più allora?
Occorrerebbe fare come stanno facendo le centrali a carbone, che stanno costruendo grandi dome(magazzini) che contengono in un ambiente chiuso tutte le scorte che servono per alimentare l’impianto. A Brindisi hanno appena avviato il progetto. Questa è una soluzione che può essere studiata. Anche se non può essere implementata nel giro di qualche mese perché non riguarda soltanto la struttura di contenimento bensì tutta l’impiantistica legata alla movimentazione dei material minerali di ferro e carbone durante il processo.
C’è chi dice che le bonifiche dei terreni potrebbero richiedere quattro o cinque anni…
È vero. E potremmo parlare anche dei problemi derivanti dalla pianificazione urbanistica dell’area, ma se questa situazione si risolverà con sequestri, chiusure e interruzione dei processi ho la sensazione che per l’ennesima volta si perderà l’occasione per salvaguardare da un lato un patrimonio industriale, dall’altro migliaia di posti di lavoro. Per il risolvere effettivamente i problemi dell’Ilva ci vorrebbe piuttosto la buona volontà da parte di tutti.
(Matteo Rigamonti)