Pochi soldi, lavoro precario e troppe incertezze portano inevitabilmente a un crollo delle nascite non solo in Italia, ma in tutta Europa. Eppure, nonostante la crisi che costringe sempre più giovani a dover rimandare il matrimonio, l’acquisto dell’auto e di una casa, a Torino questo sembra non accadere. Nel capoluogo piemontese, infatti, nei primi sette mesi di quest’anno sono stati registrati all’anagrafe 4.106 bambini, un numero in aumento dell’1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Salvatore Abruzzese, docente di Sociologia della religione nell’Università di Trento, spiega a ilSussidiario.net che un dato del genere non significa affatto che gli under 35 di oggi abbiano imparato a convivere con la precarietà. Non si tratta di un adattamento alla crisi, bensì di una sorta di “rivolta”, un grido di speranza e di risposta all’attuale situazione che passa attraverso il sacrificio, la voglia di rimettersi in piedi, di amare e di intraprendere, un poco alla volta, un concreto progetto di vita.



Professore, come si spiega un dato del genere?

La volontà di fare un figlio non può essere legata solamente a questioni economiche e non si può rinviare all’infinito. E’ perfettamente normale rimandare l’acquisto di una casa o dell’automobile, ma non si può pensare di non fare un figlio fino a chissà quando. Questo perché costruire una famiglia non rappresenta un qualsiasi beneficio del quale si sceglie di usufruire in seguito, ma al contrario stiamo parlando di una natura propria che non può essere spostata come ogni pedina della propria vita.



Non crede però che in questo modo i giovani scelgano di adattarsi e di convivere con la precarietà e la crisi?

No, non credo sia così. Al contrario, vorrei che si pensasse al figlio come una sorta di “rivolta” contro la precarietà, come un desiderio da parte delle coppie di esserci e di dimostrarsi ancora più forti. Il figlio non deve necessariamente rappresentare un adattamento, ma il principio di una ripartenza.

In che modo questi giovani sono diversi rispetto ai loro padri?

Come dicevo, i giovani di oggi scelgono di fare un figlio proprio perché le cose vanno male e proprio perché non vogliono e non possono aspettare all’infinito che la situazione italiana ed europea si stabilizzi. La volontà di costruire una famiglia resta e viene messa in pratica nonostante tutte le difficoltà: oggi, al contrario di una trentina d’anni fa, nessuno è capace realmente di dire quando effettivamente la crisi potrà passare, quindi i giovani scelgono comunque di mettere su famiglia e di non farsi bloccare da ciò che sta accadendo.



A fronte di poche certezze e un posto fisso diventato ormai un miraggio, non crede che fare un figlio possa comportare qualche rischio?

Sono convinto che un figlio dia forza, non debolezza. Un figlio porta rigore, voglia di fare e permette un recupero di umanità che è una fonte di vita. Inoltre è necessario sottolineare che con un figlio le spese crescono con gli anni, in particolare quando diventa adolescente, studente e quando comincia ad avere molte esigenze personali. I costi dei primi mesi e anni di vita sono molto circoscritti rispetto a quelli che si affronteranno successivamente. Ecco allora che si presenta quel lasso di tempo utile a raggiungere una eventuale sicurezza economica che possa eliminare ogni incertezza.

Come si spiega invece che un dato del genere sia stato rilevato in una città come Torino?

Torino è probabilmente uno dei primi e maggiori luoghi d’Italia in cui si è affermata quella che appare come una forte reazione alla crisi. Torino è anche la città delle grandi formazioni professionali, di una grande tradizione del saper fare e di una capacità operativa che fa parte integrante del territorio. Non mi sorprende dunque proprio a Torino sia presente questa dimensione di reazione che, purtroppo, non emerge con la stessa intensità nel resto d’Italia. Dico questo per confermare, ancora una volta, che non stiamo parlando di una città in cui le coppie si adattano alla crisi, ma dove reagiscono e si fanno sentire.

 

(Claudio Perlini)

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