Trentadue anni fa, il 2 agosto del 1980, alle 10.25, un ordigno contenuto in una valigetta abbandonata nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione di Bologna esplose, uccidendo 85 persone e ferendone più di 200. Fu una delle pagine più buie della storia del nostro Paese, all’interno di una stagione segnata dal sangue e dal terrorismo. Una ferita ancora aperta, a giudicare dalle polemiche che, ogni anno, prendono il posto del ricordo. «La strage di Bologna, così come Piazza Fontana, Piazza della Loggia a Brescia e l’uccisione di Aldo Moro, fu uno di quei momenti che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, segnarono indelebilmente la storia e la coscienza di questo Paese – dice a IlSussidiario.net il professor Mauro Magatti, Preside della Facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano –. Fu una scossa molto violenta che però, come spesso accade in questi casi, fece sprigionare nella società le risorse per una grande reazione morale del Paese».
Il ricordo di quella tragedia, a distanza di anni, è ancora causa di polemiche e di divisione. Per quale ragione secondo lei?
La strage di Bologna, non bisogna dimenticarlo, colpì una città che era il cuore e il punto riferimento di un’area politica molto forte in Italia. Siamo in un’epoca che vede ancora la presenza del Pci, con tutti gli strascichi polemici che questo comportava sul piano nazionale e internazionale. Quell’attentato fu un colpo nello stomaco per il Paese intero e per quella parte, che subito produsse una lettura politica di ciò che stava accadendo.
Bisogna poi aggiungere che, purtroppo, su tutta la stagione del terrorismo italiano, al di là della reazione positiva a cui accennavo prima, è rimasto un alone di mistero che non può che lasciare l’amaro in bocca. Anche per questo le parti in causa ancora oggi faticano a trovare la strada della riconciliazione.
Secondo lei esiste ancora la possibilità di giungere alla verità di quegli anni?
Da semplice cittadino posso dire che le istituzioni non sono riuscite a far luce su quel periodo, tanto è vero che oggi le interpretazioni rimangono molteplici e distanti. Mi sembra chiaro che i disegni sovrapposti, gli intrecci, le relazioni furono sicuramente così profonde che oggi sembrano impossibili da districare. Di certo però l’Italia fu teatro di uno scontro molto violento, interno, ma anche con delle proiezioni internazionali.
La ferita sembra quindi destinata a rimanere aperta.
I traumi, come nella vita collettiva possono essere gli attentati, sono sempre ferite aperte, e l’unico modo di guarirle è riuscire a guardarle insieme, vittime e carnefici. Vegliare su di esse e iniziare quella che Ricoeur chiama “la via lunga del perdono e della riconciliazione”. Per fare questo c’è però una condizione.
Quale?
È possibile solo se esiste un principio di verità. Oggi il mondo rifiuta questa parola, la ritiene blasfema, una sorta di anatema. Sembra impossibile da raggiungere e così viene rifiutata culturalmente. Ma tutto questo, come vediamo, ha un prezzo. Così facendo infatti le ferite non si rimargineranno mai.
Anche quest’anno poi non è mancato il sale, con le parole di Valerio Fioravanti contro il presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime a infiammare le polemiche.
A questo proposito, senza mettere in dubbio la possibilità di redenzione che bisogna garantire a chi, nell’ambito della vita collettiva, paga le conseguenze in termini di punizione per le regole che ha trasgredito, bisognerebbe fare una riflessione.
Chi si trova in questa condizione, infatti, dovrebbe rispettare il dolore di chi ne ha pagato le conseguenze. Mi ha colpito in questo senso il disprezzo e la totale mancanza di rispetto delle regole minime di convivenza. Esiste una dignità anche nel silenzio e nella riservatezza.
Da ultimo, gli occhi sono puntati a questo punto sulla piazza di oggi e su quei fischi che spesso, a causa del colore politico, hanno rovinato le manifestazioni di commemorazione.
Spero che questa volta non ci saranno, ma li ritengo dei campanelli d’allarme da non sottovalutare. Questi gesti fanno male alla democrazia e ci dicono che abbiamo ancora molto da crescere perché, nonostante i contributi, e gli sforzi per costruire un terreno comune, nel nostro corpo sociale esiste ancora una febbre ideologica che mina le basi di una vera convivenza civile.