Non conosco Fabrizio Rondolino, e deo gratia ero troppo piccola ai tempi della morte di Pinelli, dell’odiosa campagna di Lotta Continua contro il commissario Calabresi, del suo assassinio. Non abbastanza, per non essere comunque colpita dallo strascico di veleni e menzogne, di reticenze e assoluzioni pelose sui compagni che sbagliano, che di lì a poco avrebbero portato agli anni più bui della nostra storia . Pensiamoci, quando commendiamo la crisi politica ed  economica, di cui pur giustamente diamo la responsabilità ai vari governi del Paese: abbiamo vissuto sotto l’incubo quotidiano delle P38, delle spranghe e delle molotov, in una soggezione anzitutto culturale che ha annichilito un’intera generazione.



Per poi sentirci dire, a cavallo degli 80 -90, che in effetti si era esagerato, che era cambiato il mondo, e bisognava rivedere certe scelte, riconoscere alcune responsabilità: il che non ha impedito ai responsabili di sedere ai vertici delle aziende pubbliche ed editoriali, negli scranni del Parlamento e pontificare su tutto e tutti con il privilegio di una superiorità morale che derivava tout court dall’impegno, da una scelta “antipolitica” giustificata dalle bassezze di un partito, la DC,  che aveva garantito al Paese l’uscita dalla guerra, la rinascita e la democrazia (sono gli stessi che oggi si indignano per Di Pietro e Grillo).  Premessa con considerazioni di puro buon senso, che voglio estendere alla querele in corso. Che pare più che altro un match poco olimpico di colpi bassi, per bieche questioni di interesse personale. Per tornare al tema, non conosco neppure personalmente Calabresi, ma mi colpisce, e sconcerta l’ira furiosa, l’astio dell’ex spin doctor di D’Alema nei confronti del direttore de La Stampa.



Così, agli inizi di un torrido agosto, se ne esce con un attacco immotivato e violento, definendolo “orfanello” (gli orfani ringraziano dell’epiteto irrisorio) e figlio di un “fascistello che giocava a fare l’americano”, che “è responsabile comunque della morte di Pinelli”. Che oltretutto ha utilizzato strumentalmente il suo cognome per farsi una carriera, sposando oltretutto la figlia di uno dei mandanti del padre. Ora, qualche precisazione:  mi risulta che La Stampa sia un buon giornale, che Calabresi sia un direttore e un giornalista stimato. De gustibus, si dirà, e posso comprendere chi eccepisce su certi sguardi un po’ buonisti, un po’ veltroniani alla “ma anche”, ecco. Che poco s’ addicono alla situazione in corso, e non si sa dove prima o poi andranno a parare.

Ma un direttore mette insieme una squadra, e una squadra fa il giornale, ciascuno scrivendo come gli pare, con le sue idee e la sua penna. Apprezzo invece la svolta della Stampa se penso ai pregiudizi anticattolici, al radicalismo di certa intellighenzia torinese e non solo che trovava nel matrimonio con la sinistra il sostegno alla propria presunzione e volontà fin poco velata di potere.  Ma de gustibus, appunto.  Si può essere bravi senza sfruttare il nome paterno. Si può essere bravi senza sfruttare il cognome della consorte. Siamo persone, uniche e irripetibili, e giudicate, se proprio qualcuno si sente così in gamba da farlo, per le nostre responsabilità e prese di posizione. Nonostante le ferite, e il dolore e il trauma vissuto, Mario Calabresi non ha mai  espresso odio  verso chicchessia, il suo libro, “Spingendo la notte più in là”,  letto da migliaia di persone  e vivamente consigliabile ai giovani, è dolorosamente pacato, pensoso, pieno di affetto e dello sforzo di capire ciò che pure è incomprensibile, di  pacificare, tener viva la memoria.  

Nelle diverse interviste e occasioni pubbliche ha sempre parlato del padre, non del commissario Luigi Calabresi, come ha parlato della sua straordinaria e coraggiosa madre.  Certo, è probabile che il suo nome sia  noto soprattutto per un fatto straziante di nerissima cronaca, ma vorreste questo privilegio per affermarvi? E’ indecente pensarlo, non solo dirlo.  La moglie? Ginzburg, cognome pesante, nella letteratura e nella storia politica. Siamo certi che chiunque apparteneva a una certa élite culturale la pensasse  all’unisono, e  anche fosse, attribuiamo ai figli le colpe dei padri? E’ pieno di giornalisti nelle varie testate  e in tv che senza nulla pagare hanno scritto e insultato Calabresi e quelli come lui, all’epoca, dalle colonne di un giornale che mandava gli accoliti perlomeno a sfondare le vetrine.

Lo sfogo rabbioso di Rondolino, per sua stessa ammissione, segue una mancata collaborazione, non motivata, sulle colone de La Stampa. Non indigniamoci troppo, anche se viene spontaneo, sappiamo che molte anime belle ragionano e scrivono a seconda di interessi ben poco nobili, e semplicemente non hanno la faccia di ammetterlo. Ma c’è qualcosa di più grave dietro:  una pagina di un passato lacerato, seppur lontano, non si è chiusa ancora, e nonostante i trasformismi e le transumanze, chi è stato comunista o diceva di esserlo in certi anni non ha cambiato pelle, né nel giudicare la realtà né nell’usare le bombe, verbali, questa volta, per annichilire i nemici.

Pensiamoci, come è da pensare lo strumento dei social network, la loro forza di diffusione e il potere di attacco: non ho risposte prefissate, perché aborro ogni forma di censura e  libertà condizionata, ma tocca anche ragionare sul condizionamento delle opinioni, e come si rischia in prima persona parlando in tv o scrivendo un articolo, forse è giusto che ci si assuma  analoghi rischi lanciando frecce su twitter. Ci ha provato la signora Ferrari, per una questione di eleganza, di stile, per un’offesa che riguardava l’estetica e una femminilità ferita.  Qualcuno ha sorriso. Stavolta  trattasi di offesa più grave, che non si può rubricare in un lancio di Dagospia, e diventare soltanto  argomento  di chiacchiericcio scanzonato delle ferie agostane.