Ieri il Tribunale del riesame di Taranto si è pronunciato sul provvedimento che il 7 agosto scorso ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell’Ilva. Il danno prodotto dagli impianti, si legge nella motivazione, è stato “determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti”; ad essa si potrà rimediare “solo con imponenti e onerose misure d’intervento”. Il tribunale ha anche rilevato che “lo spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili”. Dal Meeting di Rimini, il ministro dell’ambiente Corrado Clini ha parlato di motivazione chiara, “una strada che è convergente con quella che sta seguendo il governo”. Ma che cos’è, in fondo, il caso Ilva? Quello che in maniera superficiale potrebbe sembrare l’ennesimo episodio di “cattiva giustizia”, è un più complesso caso che riguarda alcuni diritti fondamentali confliggenti e il loro bilanciamento (ndr).



Dopo la prima ondata di polemiche suscitate dal caso ILVA, si sta lentamente diffondendo la percezione che questa volta vi sia qualcosa di più dell’ennesimo scontro tra “politica” e “magistratura”, una contraddizione più intima e profonda, un nodo non più risolvibile nei soli termini di un conflitto tra poteri. In realtà, la vicenda delle acciaierie di Taranto ha messo a nudo tutti i limiti di una delle ideologie più diffuse dei nostri tempi, una sorta di pensiero unico che, più o meno consapevolmente, ci attraversa tutti: l’idea cioè che una “politica” o una “giustizia” che persegua la tutela di diritti fondamentali costituisca una forma di esercizio del potere “mite”, utile ad alcuni (se non a tutti), comunque innocua per la maggioranza (se non per tutti).



Che male ci può essere, che danno ci può derivare dal proteggere i diritti di una minoranza? Il diritto ad una vita felice? A sposarci tutti? Ad avere tutti gli stessi diritti?  La cruda realtà dei fatti ci ha dimostrato che non è così. Nei casi “vivi” i diritti non stanno da soli, non sono isolati, ma hanno una portata “sistemica”: l’ affermazione di uno comporta inevitabilmente la limitazione o l’esclusione di un altro, in contraddizione con il primo. Come nel caso ILVA: il diritto alla salute comporta la limitazione o l’esclusione del diritto al lavoro. Inoltre, quando un diritto è affermato in un’aula di giustizia, non costituisce mai un’affermazione dolce, ma è sempre calato in una dimensione coattiva, comporta sempre uno strascico di lacrime e sangue: per uno che è soddisfatto c’è sempre qualcuno che è insoddisfatto. Tutto questo non accade per caso, ma è dovuto alla struttura del “linguaggio dei diritti” che, consolidatosi storicamente, ormai tutti noi usiamo in modo quasi automatico.



Questo linguaggio – che tanti meriti ha avuto e continua ad avere per aver assicurato alla nostra civiltà di conseguire livelli eticamente sempre più avanzati e aver assicurato a tutti noi condizioni di vita senza paragoni – oscura però il fatto che esiste un “rapporto” sottostante l’affermazione del diritto e nasconde il suo lato passivo: quando si afferma che Tizio ha un certo diritto, si concentra l’attenzione tutta sul soggetto, sul lato attivo del rapporto e, in tal modo, si fa dimenticare che il diritto riconosciuto a Tizio gli attribuisce pretese o facoltà, che potrà e vorrà esercitare nei confronti di altri, che avranno corrispettivi obblighi e soggezioni, tanto che, in realtà, l’interesse a vedersi riconosciuto un diritto in un’aula di giustizia è proprio connesso a poter vedere realizzati questi obblighi con la forza (seppure quella istituzionalizzata). Esiste, quindi, una portata “retorica” del linguaggio dei diritti che è stata essenziale per la sua affermazione storica. Secondo alcuni studiosi, infatti, le “carte dei diritti” si sono formate così perché, non potendosi dire esplicitamente che un sovrano aveva determinati obblighi o doveva soggiacere a determinate facoltà altrui, si è preferito affermare che i sudditi avevano i corrispondenti diritti, in modo da rendere accettabile l’affermazione.

Il timore, ed è un timore serio, è che quando, prima o poi, si acquisirà piena coscienza di questo limite del linguaggio dei diritti, si sia tentati dall’abbandonarlo o, ancora peggio (ed è quanto già in parte sta avvenendo), che si effettuino delle vere e proprie “crociate” contro o a favore di questo o quel diritto, promuovendo una conflittualità i cui rischi sono evidenti a chiunque. In realtà, ciò che occorre è prendere atto che il linguaggio dei diritti, una volta trasportato in società complesse come quelle attuali, caratterizzate da un accentuato pluralismo di valori e con una scarsa condivisione generale dei medesimi, deve essere utilizzato in modo maggiormente consapevole, recuperando la dimensione etica del linguaggio e di qualsiasi linguaggio. Bisogna considerare che ogni affermazione fatta ha una dimensione di responsabilità. In particolare, occorre sempre interrogarsi su cosa ci “autorizzi” a fare determinate affermazioni e su quali “impegni” esse comportino.

In questa prospettiva, e ritornando al caso ILVA, c’è da chiedersi se il bilanciamento dei valori sottesi al diritto alla salute e al diritto al lavoro non fosse già stato   effettuato in sede politica attraverso la scelta, peraltro in parte imposta da obblighi in tal senso assunti in sede europea, di penalizzare certi comportamenti con previsioni che legittimavano il ricorso a strumenti coattivi quali il sequestro, con la conseguenza di ritenere che tali scelte politiche precedenti abbiano fornito all’autorità giudiziaria la “legittimazione” necessaria per fare le affermazioni che ha fatto, e che la sottovalutazione degli “impegni” che simile penalizzazione comportava (anche in termini di compressione del diritto al lavoro e di disapplicazione di provvedimenti amministrativi in contrasto) sia quindi riconducibile alla responsabilità politica di detta scelta a suo tempo effettuata.

D’altro canto, occorre porsi alcune domande anche su un altro elemento che rappresenta, dal punto di vista tecnico, il vero punto dolente della situazione in esame: il rispetto del principio di proporzione che, anche sulla base della giurisprudenza sovranazionale oltre che di quella nazionale, rappresenta sempre una condizione generale per l’adozione dei sequestri: il rispetto cioè del principio per il quale il sacrificio imposto con il sequestro (compressione del diritto al lavoro) deve pur sempre essere proporzionato in concreto al vantaggio conseguito attraverso la protezione del bene tutelato attraverso la norma incriminatrice (diritto alla salute).

Ebbene, c’è da chiedersi se il principio di proporzione sia in grado di funzionare adeguatamente quando i beni a confronto siano costituiti da diritti fondamentali (quali il diritto alla salute e il diritto al lavoro) che, per loro natura, aspirano ad uno statuto di assolutezza e universalità che preclude qualsiasi confronto banale. Correlativamente bisogna, infine, domandarsi se un organo giurisdizionale ordinario, per come è formato e selezionato e per le responsabilità che istituzionalmente gli competono, sia davvero il più adeguato a compiere una simile valutazione di proporzionalità e se, conseguentemente, la legittimazione che pure gli è stata data in tal senso, non sia in realtà ingiustificata e possa invece essere rivista dalla “politica”.

Non si pretende in questa sede e ora di dare risposte a problemi così complessi, tuttavia sembra già molto importante che su questioni di tal fatta non ci si lasci travolgere ancora una volta dalle contingenze, iniziando una escalation di contrapposizioni,  polemiche e arroccamenti tra “politica” e “giustizia”, che rivelerebbero tutta la loro sterilità nel futuro. Le soluzioni del caso concreto spettano ad altri, ma sarebbe invece importante, per tutti, portare il dibattito su un piano culturale più ampio, ancorché pregno di ricadute pratiche, che affronti  le questioni poste dal crollo di talune ideologie e studi con franchezza il tema dei diritti, così da consentire di porsi le giuste domande ed avere una prospettiva di più largo respiro nell’immaginare le risposte per il domani.

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