In Brasile i detenuti, nelle carceri gestite da civili e volontari con sistema Apac (Associação de Proteção aos Condenados), hanno le chiavi delle celle. In Italia, l’ozio forzato e le condizioni deprimenti di istituti sovraffollati e obsoleti rappresentano un attentato all’articolo 27 della nostra Costituzione, oltre che alla coscienza di persone che smarriscono il senso di se stesse. Nove detenuti su dieci che tornano a delinquere sanciscono senza appello il fallimento di un sistema in cui il concetto di pena andrebbe totalmente ripensato. «Il carcere così come è adesso è un inferno per tutti» ha dichiarato ieri al Meeting di Rimini Luciano Violante, ospite di un incontro dedicato all’idea di pena nel XXI secolo, auspicando che non ci si limiti alla «manutenzione dell’orrore», ma che si ripensi al concetto stesso di pena. Una riflessione culturale oltre a un cambio di passo nelle politiche di gestione, dunque. Di questo IlSussidiario.net ha parlato con Giovanni Tamburino, a capo del Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria), che chiede l’urgente reintegro del fondo in dotazione alla legge Smuraglia.



Presidente, qual è la situazione delle carceri italiane?

La realtà dei nostri circa 200 istituti di pena è variegata e complessa e non si può fare un discorso unico per tutti. Vi sono strutture arcaiche che sembrano tratte di peso da uno o due secoli fa, accanto alle quali non mancano alcuni istituti moderni e funzionali, dignitosi, dove ci sono soluzioni avanzate e attività di buon livello. Nel complesso, però, direi che il nostro è un sistema che attende disperatamente un salto di qualità.



Qual è il punto dolente del nostro sistema carcerario, al di là dei dati pur preoccupanti dell’affollamento? 

Il carcere è una soluzione che ha sempre sulla persona ricadute pesanti, ed è quasi impossibile se non irrealistico pensare di liberarlo completamente da questi aspetti negativi. La privazione di libertà accentua sempre i fenomeni di asocialità, che, non dimentichiamo, esistono per definizione in chi ha scelto di andare contro la legge. Purtroppo, il carcere determina nella quasi totalità dei casi un impoverimento della soggettività del detenuto, costretto a concepirsi all’interno di un recinto fisico ma anche mentale, con ripercussioni inevitabili a livello di coscienza di sé.



Eppure, il lavoro può scardinare questo regime depressivo della persona. Perché?

Il lavoro, quando è vero lavoro e quindi quando ha caratteristiche di serietà e di efficienza, trasforma la persona, determinando una ripresa di autostima e una ricollocazione di carattere sociale. Capita di vedere uomini che per la prima volta nella loro vita vedono se medesimi in una luce nuova, positiva. Aggiungerei che il lavoro, se fatto seriamente, è l’unica vera vaccinazione contro la recidiva.

 

Perché ci tiene a sottolineare la «serietà» del lavoro?

 

Perché in carcere esiste tutta una serie di attività finalizzate a contrastare l’ozio forzato che sono qualcosa di utile, ma che sono lontane dal lavoro nel senso vero del termine. Il lavoro dei detenuti, per essere realmente tale e dare frutti positivi, deve avere altre caratteristiche, diverse da quelle della pur importante ergoterapia, e assimilabili a quelle del lavoro sociale esterno, vera attività efficiente.

 

Sulla base delle informazioni in suo possesso, è possibile quantificare il lavoro di questo secondo tipo che si svolge nelle carceri italiane e metterlo in relazione alla recidiva?

 

Occorrerebbe innanzitutto uno studio accurato, che manca, e dunque quello che posso dire è legato più a mie esperienze personali che a dati scientificamente dimostrati. Ciò detto, posso senz’altro confermare che i successi migliori si sono avuti proprio nei casi in cui la persona detenuta ha iniziato un percorso di lavoro vero in carcere e poi ha saputo, uscendo, far proprio questo cambiamento, dando una svolta alla sua vita.

 

Molte testimonianze di detenuti provano che la pena autenticamente vissuta non è la semplice permanenza in un regime di restrizione. Perché secondo lei il lavoro fa «capire» la pena?

 

Perché il lavoro è il primo fattore che fa recuperare l’autostima, intesa come nuova percezione di sé, e soprattutto fa riguadagnare alla persona una collocazione sociale, aiutandola a vedersi come parte positiva, sana, produttiva nella società. Fino a riconsiderare in modo completamente diverso il reato commesso, che invece è il culmine della fuga dalla responsabilità. 

 

Che cosa potrebbe favorire nel nostro Paese un approccio diverso al problema della detenzione?

 

Concordo con quello che ha detto Luciano Violante al Meeting di Rimini, quando ha auspicato una nuova riflessione sulla pena. Mai come oggi occorre una considerazione nuova, profonda, di che cosa è la pena. È da circa tre secoli, dai tempi di Beccaria se non consideriamo la parentesi della riflessione compiuta a inizio ‘900, che questo non avviene.

 

Quali dovrebbero essere i capisaldi di questo nuovo ripensamento?

Innanzitutto, come organizzare la detenzione perché essa sia fortemente dissuasiva e al tempo stesso massimamente costruttiva. Poi, in quali limiti la detenzione sia insostituibile; e in quali limiti si debba e si possa sostituire con altre sanzioni.

 

In che modo? Integrandola con altre sanzioni o sostituendola completamente?

 

Anche sostituendola in modo completo. Naturalmente non sempre e non in tutti i casi, ma dove sia possibile anche in modo completo.

 

Al Meeting si è parlato delle Apac brasiliane. Ci sono altri sistemi di detenzione dai quali potremmo imparare qualcosa?

 

Ci sono ed è sempre utilissimo conoscerli, ma bisogna fare molta attenzione perché un sistema di detenzione funziona, mi passi il termine, quando funziona bene a casa sua. Significa che un sistema che funziona in un determinato contesto potrebbe funzionare diversamente, o non funzionare affatto, se portato da un’altra parte. In Brasile la lettura di un libro porta a una diminuzione di pena fino a un certo numero di giorni ogni anno; noi questo sistema, in un’altra forma che è quella della liberazione anticipata, lo conosciamo dal 1975, cioè da quarant’anni. 

 

La legge Smuraglia (22 giugno 2000, n. 193, Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti, ndr) è ferma. Che cosa auspica?

 

Che venga rifinanziata al più presto. Ha dato buoni risultati e sarebbe grave se il fondo non venisse ripristinato.

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