Quello che mi ha sempre colpito del Meeting di Rimini è l’intreccio tra la soggettività di coloro che partecipano come volontari e il rapporto che essi istituiscono con i grandi temi della politica nazionale e internazionale. Oggi l’Italia è investita da una crisi economica e sociale che in molti abbiamo definito in primo luogo una “crisi morale”, ossia una crisi che ha tra le sue concause molto più di un’inserzione non virtuosa nella globalizzazione e nella crisi dell’eurozona che è dinnanzi a tutti, per il conflitto tra la Germania e tutti gli altri paesi europei. Una delle cause è infatti la mancanza di una soggettività estesa a tutti i gangli e i centri sociali della nostra nazione. In questi anni infatti è prevalsa l’ipotesi secondo la quale le uniche culture del vivere associato fossero lo Stato e il mercato, dimenticando invece che l’elemento fondamentale è la società stessa che è formata dalla comunità molteplici che si ricreano continuamente tra le persone. Ogni anno il Meeting di Rimini è l’emersione evidente di questa comunità di persone, di associazioni, di imprese, siano esse capitalistiche o, come le chiamo io, dell’“economia morale” (cooperative, associazioni no profit, imprese sociali). Tutto ciò costituisce nel suo rinnovarsi non solo un evento annuale, ma anche un insieme di relazioni etiche, culturali, financo economiche, che si rinnova anno per anno, e che ha nel suo manifestarsi l’incontro tra questo insieme vastissimo di persone e di comunità con gli esponenti del potere politico. Sì, proprio del potere politico e, nel contempo, dei dirigenti delle cosiddette autonomie funzionali, ossia organizzazioni sindacali, associazioni imprenditoriali e tutte le rappresentanze di quella che si usa definire la “società economica”.  



In un Paese come l’Italia, che è caratterizzato storicamente, come osservava Antonio Gramsci nei suoi scritti dal carcere, da «un sovversivismo endemico delle classi dirigenti» (che io definirei “classi dominanti”) e anche da quelle che un tempo si definivano le classi popolari, scosse storicamente in Italia da ondate di ribellismo e di violenza collettiva che mettevano in discussione il patto che deve esistere tra lo Stato e i cittadini, il Meeting di Rimini rappresenta un unicum eccezionale. 



Migliaia di giovani, di anziani e di famiglie ascoltano non i rappresentanti del potere in senso lato, come afferma Famiglia cristiana, ma i rappresentanti eletti dal popolo, che nonostante l’attuale governo dei tecnici, che ha sottratto al popolo la sua sovranità, è ancora quello che deve dire l’ultima parola. E non si limitano certo ad ascoltare, ma ne interpretano le parole secondo il loro sentimento e il loro stato d’animo. Francamente chiamare tutto ciò “omologazione” e non invece attenzione, rispetto e perché no entusiasmo per coloro che hanno la responsabilità delle scelte pubbliche, non mi pare un fatto deprimente, ma incoraggiante, che segnala come ci possa essere un rapporto tra cittadini e Stati, non deferente, ma partecipativo.  



Si badi bene che chi scrive non ha mai condiviso la totalità delle scelte di Berlusconi o dei suoi governi e, anche oggi, non condivide l’azione del governo Monti e soprattutto ne critica l’origine velatamente anticostituzionale, senza mancare con ciò di rispetto al presidente della Repubblica, che si è caricato sulle spalle un pesantissimo e gravoso compito dinanzi alla crisi dei partiti italiani. 
In questa situazione trovo sconcertante che un settimanale serio, che fin dall’infanzia ho letto con interesse, muova ora, in una situazione così difficile per la nazione, quest’attacco frontale al Meeting. Anche perché ne disconosce la sua ragione profonda che sta, come tra l’altro spiega il titolo di quest’anno, nel rapporto tra la finitezza della vita personale e sociale e l’infinità della fede e della propensione al bene. Naturalmente nel mondo cattolico sono legittime e degne di grandissima considerazione le critiche che si possono fare a Comunione e Liberazione, ma mi pare francamente che questo modo di farle sia errato perché divide anziché unire.

Oggi il cattolicesimo italiano, che è l’essenza stessa della storia di questo Paese, ha bisogno, non tanto di essere unito politicamente (bisognerebbe riflettere con maggiore libertà su quanto sia stata utile questa unità), quanto nell’aspirazione a una civiltà del dialogo, dell’incontro e, lasciatemi dire, dell’“ecumenismo”. In questo senso spero che si possa trovare un terreno comune di discussione e di confronto sui temi che il rapporto tra politica e fede, tra azione economica e fede, tra associazionismo, volontariato e fede che oggi si pongono in Italia e nel mondo. Senza editoriali intrisi di quel giustizialismo che ha condotto questo Paese a una sorta di guerra civile e ideologica, che ci ha portati a sospendere la nostra tradizione costituzionale e a dotarci di un governo di cosiddetti “tecnici”.

Scrivo queste parole con molto dolore e anche, se mi permettete, con un certo imbarazzo, perché tra coloro che scrivono e leggono Famiglia cristiana ho alcuni degli amici che hanno accompagnato il corso, ormai non più breve, della mia vita. Amareggiato e confuso spero di fare chiarezza in me stesso assieme a coloro che vorranno unirsi alla nostra discussione.

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