«Una politica concepita solamente come conquista e mantenimento del potere è la cosa più ostile al desiderio di bene dell’uomo e al suo rapporto con l’infinito». Lo ha detto Mary Ann Glendon, ospite ieri del Meeting di Rimini, dove ha parlato di desiderio e politica inseme a Wael Farouq e a Giorgio Vittadini. In questa intervista a IlSussidiario.net Glendon, tra i massimi giuristi americani e presidente della Pontificia accaddemia delle Scienze sociali, lancia l’allarme sulla crisi attuale della politica, denuncia il pericolo rappresentato dalle oligarchie tecnocratiche, strutturalmente incapaci di comporre gli interessi, e commenta lo stato del suo Paese a due mesi dalle elezioni che opporranno Barack Obama a Mitt Romney.
Partiamo dal titolo del Meeting: la natura dell’uomo è rapporto con l’infinito.
L’uomo è una creatura fatta di desiderio, e il desiderio è trascendenza: ci mette in relazione con il tutto. In questo modo investe anche la sfera della politica. Gli antichi Greci chiamavano thymos il desiderio di fama, di gloria, di riconoscimento. Il thymos può portarci verso tutto ciò che compie la nostra umanità, ma può anche portarci nella direzione sbagliata. Ecco perché il desiderio va educato: educato ad andare sempre verso ciò che è più alto e più buono.
La politica è il campo della coesistenza pacifica tra gli uomini. L’infinito cui l’uomo tende rappresenta una minaccia per la politica?
Desideri ineducati rappresentano una minaccia per tutto, politica compresa. Oggi una politica concepita solamente come conquista e mantenimento del potere è senz’altro ostile al desiderio di bene dell’uomo e al suo rapporto con l’infinito. Perché allora non ripensare la politica nel modo che ci ha insegnato Aristotele, per il quale essa è fatta di uomini liberi che prendono decisioni libere sulla loro vita sociale. In questo modo essa diviene davvero la strada per la prosperità umana e l’opportunità per gli individui e le comunità di realizzare tutto ciò di cui sono capaci.
Qual è secondo lei l’origine della crisi attuale della politica? In Italia, per esempio, essa sembra essersi autoesclusa dalla scena, lasciando il posto ai tecnici.
Se politica è un governo di tecnici o di burocrati, mi pare qualcosa di molto differente da una impostazione sussidiaria, centrata sull’idea di persone che liberamente scelgono come organizzare la loro vita sociale. Da questo punto di vista il concetto di sussidiarietà appare l’unica via attraverso la quale recuperare una politica genuina e resistere alle oligarchie dei tecnocrati. Ben vengano gli esperti, che però non sono riusciti a prevedere la crisi economica nella quale siamo immersi. È naturale che ora nutriamo verso di loro un po’ di salutare scetticismo. Si ricorda quello che i docenti della London School of Economics risposero alla Regina Elisabetta? Dissero che erano troppo specialisti per accorgersi di quel che stava accadendo: nessuno aveva messo insieme i pezzi. Ci dev’essere stato qualche errore nel nostro sistema educativo, se abbiamo formato esperti privi di un senso del tutto.
Le ho citato l’italia. Esiste anche negli Stati Uniti una crisi della politica?
Non credo che la crisi della politica negli Stati Uniti sia molto diversa dalla crisi che ha investito le altre democrazie liberali. Tutte stanno attraversando un tempo molto difficile. Nel nostro caso, una delle questioni più delicate riguarda una domanda sollevata dai pensatori politici classici e poi di nuovo da Rousseau e da Montesquieu, e rimasta senza risposta: quella del governo di un territorio esteso con una popolazione eterogenea.
Allude ai problemi posti dall’immigrazione e dall’evolversi della cittadinanza?
È questa la grande sfida. I padri fondatori pensarono di aver trovato la soluzione nel 1787, ma nel 1787 il nostro Paese aveva un territorio esteso ma con una popolazione relativamente omogenea. Siamo in un tempo in cui ci sono molte critiche verso lo stato-nazione, alcune delle quali sono anche meritate. D’altra parte non dobbiamo dimenticare che lo stato-nazione rimane una grande conquista politica, un punto di non ritorno nel trovare una via per governare un largo numero di persone nel rispetto della loro partecipazione. Questa è la sfida e penso che sia la la stessa in tutte le democrazie liberali.
Viviamo in un’epoca segnata da diritti fondamentali che spesso risultano in conflitto: le fedi e la laicità dello stato, la libertà e la vita, la salute e il lavoro per citarne alcuni. Come si può risolvere il problema?
Questo conflitto esiste in noi, dentro le nostre comunità e nei nostri sistemi giuridici. È vero: i beni che chiamiamo fondamentali sono spesso in un rapporto di tensione conflittuale con altri beni. Ora, della politica si può dire tutto il male possibile, ma la sua grande capacità è quella di poter armonizzare questi beni per quanto possibile e nel rispetto della loro rispettiva autonomia. È ciò che i tedeschi chiamano concordanza pratica. Vuol dire cercare di comporre i diritti in un modo tale da massimizzare ciò che ciascuno di essi può portare al bene comune, senza mai escludere del tutto quelli ai quali diamo un peso inferiore o differente.
Dove sta la difficoltà?
La concordanza pratica è realizzabile solo se si ha una buona comprensione di ciò che fonda ciascuno dei diritti e di qual è il loro fine: cosa nella quale un tecnocrate puro non avrà mai un buon successo. Aggiungo che più si espande la categoria dei diritti che chiamiamo fondamentali, più aumentano i conflitti reciproci. Occorre dunque pensarci molto bene prima di accoglierne di nuovi.
Mancano due mesi alle elezioni presidenziali americane e il 49 per cento degli elettori non sa ancora per chi votare. Come lo spiega?
Io credo che gli ultimissimi sondaggi stiano mostrando che la maggior parte della gente, in realtà, ha deciso. Ancora una volta, come nel 2004, i due candidati sono molto, molto vicini, perché si fronteggiano con eguali forze due differenti prospettive sul ruolo del governo e questo farà delle prossime elezioni un momento storico. Una contea in Ohio potrebbe decidere il prossimo presidente degli Stati Uniti.
Cosa faranno i cattolici?
I cattolici americani sono cittadini americani. Non c’è il voto cattolico, perché i cattolici, proprio come il resto degli americani, sono divisi anche sul modo di concepire il ruolo che compete al governo. Queste elezioni ripropongono in ogni caso, nella forma di un deficit di sussidiarietà, il tema della libertà. Quando Tocqueville visitò gli Stati Uniti disse che siamo il Paese dove l’iniziativa viene dal basso, ma ora siamo cresciuti a tal punto… che mai come ora ci sono così poche opportunità per la gente di aver parte nelle decisioni che riguardano la vita di tutti. Gli americani sono oggi dominati dalla percezione che i loro destini economici e politici sono giocati da forze potenti che sono molto distanti da loro, e sulle quali c’è pochissimo o nessun controllo.
Negli Usa fede religiosa e libertà hanno convissuto pacificamente. Quanto peserà sul voto la fede di Barack Obama e Mitt Romney?
Non penso che sarà l’elemento più importante di questa elezione. Per il semplice motivo che nessuno realmente sa cosa c’è nel cuore di un’altra persona, nemmeno di un politico. Penso invece che i grandi problemi che occupano la mente delle persone hanno a che fare con la crisi economica e con l’idea che il Paese non stia andando nella giusta direzione; con la paura per il futuro dei propri figli e dei propri nipoti, con l’enorme debito che grava sulle future generazioni.
Qual è secondo lei il rischio maggiore delle democrazie compiute?
Per lungo tempo, in troppi abbiamo creduto di non aver bisogno di implicarci nella politica e di poterci ritirare nel privato, perché, dicevamo, «tutto sta andando avanti abbastanza bene», e come cittadini delle democrazie liberali abbiamo rinunciato a ciò che il principio di sussidiarietà − e dunque la libertà − ci chiede. Mi auguro che venga finalmente l’inizio di una nuova fase di responsabilità.
(Federico Ferraù)