La Corte europea dei diritti umani ha bocciato la legge 40 per quanto riguarda l’impossibilità per una coppia fertile ma portatrice sana di fibrosi cistica di accedere alla diagnosi preimpianto degli embrioni. I giudici di Strasburgo hanno definito “incoerente” il sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto degli embrioni, poiché vi è un’altra legge dello Stato che permette l’aborto terapeutico nel caso in cui il feto sia affetto da fibrosi cistica. La Corte ha quindi accolto il ricorso dei coniugi Rosetta Costa e Walter Pavan stabilendo che, per come è formulata, la legge 40 ha violato il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare. Per questo motivo lo Stato italiano dovrà risarcire la coppia con 15mila euro per danni morali e con altri 2.500 per le spese legali sostenute. Il professor Alberto Gambino, ordinario di Diritto privato nell’Università Europea di Roma, contattato da IlSussidiario.net, spiega però che i giudici di Strasburgo, nella bocciatura della legge 40, non hanno tenuto conto di una differenza fondamentale, vale a dire quella «che passa tra gli esami diagnostici sul feto, come l’amniocentesi, che pur presentano una percentuale di possibilità di incidere sull’integrità del feto, e la diagnosi preimpianto embrionale che, essendo l’embrione un organismo di poche cellule, ha serie probabilità di intaccarne la vitalità. Di questo interesse, cioè alla vita e all’integrità fisica dell’embrione, la Corte di Strasburgo non sembra aver effettuato adeguato bilanciamento con il legittimo desiderio, ma non diritto, ad avere un figlio sano». I due coniugi a cui la Corte ha dato ragione avevano presentato ricorso nell’ottobre del 2010 dopo che nel 2006, in seguito alla nascita del loro primo figlio affetto da fibrosi cistica, avevano scoperto di essere entrambi portatori sani della malattia. Intenzionati ad avere comunque altri figli, i due hanno quindi optato per la procreazione assistita e la diagnosi preimpianto, una pratica però vietata dalla legge italiana.
Nel ricorso la coppia ha allora sostenuto che tale normativa nazionale viola il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare e quello a non essere discriminati rispetto ad altre coppie, sanciti dagli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha infine emesso la sentenza in loro favore.