Dalle notizie di agenzia apprendiamo che il divieto di diagnosi preimpianto di un embrione prodotto in provetta, divieto previsto dalla legislazione italiana (insieme a quella svizzera e a quella austriaca), viola il diritto alla vita privata a familiare sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo. Il motivo andrebbe ricercato in una sorta di incoerenza che sussisterebbe mettendo in relazione tale divieto e la facoltà prevista in Italia di abortire se il feto, a motivo delle sue patologie, è in grado di recare danno alla salute fisica e psichica della madre.



Scelta pesante, quella dei giudici di Strasburgo, che persistono nel perseguire una linea di forte contestazione di legislazioni nazionali a loro sgradite, incuranti delle sconfessioni ricevute in passato in sede di appello alla Grande Camera; basti ricordare la sentenza di quest’ultima nel caso del crocefisso, di assoluzione per l’ordinamento italiano, nonché l’annullamento di una sentenza in materia di fecondazione eterologa e relativa alla legge austriaca, ad impianto restrittivo. La scelta è pesante anche per le molte voci che si sono levate in dottrina e nelle sedi politiche volte a sottolineare le carenze di legittimazione di giudici internazionali a contestare in modo così aperto le scelte degli Stati, scelte compiute dai relativi parlamenti i quali, invece, godono di una piena legittimazione democratica. Giudici contro giudici, dunque, e giudici conto Parlamenti? Il panorama, si sa, è irto di questioni aperte e di difficile soluzione, soluzione che tuttavia si va elaborando nelle sedi competenti, in cui si mira a confinare il potere del giudiziario europeo a casi di conclamata negazione dei diritti della Convenzione, ribadendo il carattere sussidiario della giurisdizione internazionale, carattere che altre sezioni dello stesso Tribunale di Strasburgo non mancano di ribadire.



Quanto alle motivazioni della sentenza, val la pena di notare come l’argomento molto sottolineato dai media – quella della incoerenza tra legge italiana sull’aborto e legge sulla fecondazione assistita – sia da considerare con attenzione e criticamente. Tra le due leggi sussistono infatti molti elementi di distanza e non solo temporale. Diversi sono infatti i campi di azione delle due normative, una volta a tutelare la salute della madre, l’altra mirante a proibire pratiche eugenetiche. Non banalizziamo: la diagnosi preimpianto non serve ad avere figli biondi o particolarmente intelligenti (i figli su misura, contro cui si scaglia il filosofo americano Michel Sandel nel suo bel testo Contro la perfezione); il divieto della stessa ha la funzione di impedire la selezione genetica e quindi l’eliminazione di embrioni portatori di determinate malattie, molte delle quali anche gravi. E’ ragionevole tutto questo alla luce delle più recenti scoperte scientifiche? 



Su questo aspetto non si può evitare di riflettere, raccogliendo in pieno la sfida. Senza la prestesa di essere esaustivi, va detto che, forse, chi si oppone non è uno squilibrato che si crogiola nella propria sofferenza o in quella di innocenti; chi si oppone ha da offrire al discorso pubblico delle motivazioni forti, che si incentrano sul rispetto di ogni essere umano, che è tale e degno del rispetto (e non di eliminazione) fin dal primo istante del suo affacciarsi alla vita; chi si oppone sa che ogni vita è portatrice di un significato infinito, per non dimenticare il quale si possono perseguire altre vie a quelle che più istintivamente si perseguirebbero, vie forse meno attraenti a prima vista o meno immediate ma, nel tempo, capaci di generare una cultura della vita, della positività del reale, che è quello a cui tutti aspiriamo.
Siamo ben certi che vi sia una eugenetica buona e una, quella tradizionale, cattiva? Una imposta dal potere dittatoriale e una invece volta a creare benessere e salute, fisica e psichica, liberamente scelta? Non sono invece entrambe volte a affermare il potere dell’uomo sull’uomo? Forse la Grande Camera ci aiuterà a far luce anche su questi drammatici dilemmi e ad approfondire il senso e la razionalità di divieti che lo spazio pubblico mira a demonizzare senza possibilità di appello.

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