Il caso giudiziario che ha offerto l’occasione alla Sezione di primo grado della Corte europea per i diritti dell’uomo per la sentenza sulla incongruenza tra il dettato della legge 40, in materia di selezione preimpianto degli embrioni, e quello della legge 194, riguardo dell’aborto di feti affetti da patologie, riguarda una coppia di genitori, Rosetta Costa e Walter Pavan, ai quali nel 2006 nacque un figlio affetto da fibrosi cistica. Attraverso un test genetico, i due scoprirono di essere entrambi portatori sani di una mutazione del DNA legata a questa malattia. Quando nel 2010 la moglie rimase nuovamente incinta, scoprì, attraverso la diagnosi prenatale, che il figlio che portava in grembo sarebbe nato anch’egli affetto dalla stessa malattia. Abortì. I due genitori decisero che volevano un altro bambino, questa volta sano. L’unico modo per averne la certezza era il ricorso alla fecondazione assistita, pur non essendo una coppia sterile, requisito fisico richiesto dalla legge 40. Inoltre, sarebbe stato necessario praticare la diagnosi preimpianto sugli embrioni generati in provetta per escludere quelli malati di fibrosi cistica. Pratica, quest’ultima, vietata dalla legge italiana. I due decisero di presentare ricorso presso la Corte di Strasburgo per vedere accolta la loro richiesta di fecondazione in vitro con selezione embrionale. La Corte si è pronunciata, stabilendo che la legge italiana viola il diritto alla vita privata e familiare della coppia e appare in contrasto con quanto consentirebbe un’altra legge del nostro Paese, la 194, alle donne che non intendono dare alla luce un bambino malato. Al di là della controversia giuridica e politica, intorno a che cosa ruota il ricorso presentato dalla coppia italiana e la decisione dei giudici di Strasburgo? Una malattia ereditaria, la fibrosi cistica. Per saperne di più su questa malattia, le sue cause e la sua cura, IlSussidiario.net si è rivolto a don Roberto Colombo, docente della Facoltà di Medicina e Chirurgia del Policlinico Gemelli (Università Cattolica) e direttore del Centro per lo Studio delle Malattie Ereditarie Rare dell’Ospedale Niguarda di Milano.
Una malattia, la fibrosi cistica, che pochi conoscono ma che è all’origine di una sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo che fa discutere. Di che cosa si tratta?
La fibrosi cistica, un tempo chiamata mucoviscidosi a motivo delle secrezioni mucose particolarmente dense e vischiose che si riscontrano in alcuni organi dei pazienti, è una malattia congenita cronica non contagiosa, a trasmissione ereditaria, che colpisce in Italia un bambino ogni 3000-3500 nati. Venne descritta clinicamente per la prima volta nel 1938 dalla dottoressa americana Dorothy Andersen, che lavorava al Babies Hospital del Columbia-Presbyterian Medical Center di New York. Ma la sua causa genetica fu scoperta solo nel 1989 da un gruppo di studiosi del Hospital for Sick Children di Toronto, in Canada. La sua insorgenza è legata ad alcune modificazioni nella sequenza del DNA di un gene, dello CFTR, che è localizzato nel braccio lungo del nostro cromosoma numero 7 e presiede alla sintesi di una particolare proteina che regola il passaggio di sali e di acqua tra l’interno e l’esterno delle cellule di molte ghiandole del nostro corpo.
Cosa accade quindi?
Questa proteina è attualmente chiamata “regolatore della conduttanza di transmembrana della fibrosi cistica”. Quando è presente un difetto nel gene CFTR, la proteina non funziona più regolarmente e questo provoca nel soggetto la comparsa della malattia attraverso la produzione di secrezioni “disidratate”: il sudore è troppo ricco in sodio e cloro e il muco molto denso tende ad ostruire i dotti che attraversa. La malattia colpisce sia i maschi che le femmine e e può manifestarsi nell’apparato respiratorio, dalle prime vie aeree al tessuto polmonare, nel pancreas (produzione di enzimi digestivi), nel fegato, nell’intestino e nell’apparato riproduttivo, soprattutto nei maschi.
Come viene trasmessa questa malattia dai genitori ai figli?
Tecnicamente, si dice che la trasmissione è “autosomica recessiva”. Che cosa significa? “Autosomica” sta ad indicare che non vi una probabilità diversa di trasmetterla ai figli maschi e femmine. L’aggettivo “recessiva” si rifà alle leggi dell’ereditarietà dei caratteri scoperte dall’abate agostiniano Gregorio Mendel nel 1865, che, in certo numero di casi, si applicano anche all’uomo. Per manifestare i segni clinici della malattia, il soggetto deve possedere due copie del gene CFTR difettoso, una ricevuta dal padre e l’altra dalla madre, che – in questo caso – sono detti “portatori sani”. Non è detto che ogni volta che procreano due genitori portatori sani della fibrosi cistica concepiscano un bambino malato. Ad ogni gravidanza, in dipendenza della diversa combinazione dei cromosomi che essi trasmettono al figlio, una coppia di portatori ha 1 probabilità su 4 che il figlio sia malato, 1 probabilità su 4 che non sia né malato né portatore, e 2 probabilità su 4 che sia anch’egli portatore sano. Le probabilità sono indipendenti per ogni concepimento: il fatto che il primo figlio sia sano o malato non influenza la probabilità che i successivi manifestino la malattia oppure no.
La fibrosi cistica è una malattia mortale?
Fino alla metà dello scorso secolo, quasi tutti i bambini nati con questa malattia non superavano l’anno di vita. Nel corso dei decenni successivi, l’aspettativa di vita delle persone con fibrosi cistica è andata costantemente aumentando. Attualmente, l’età media di sopravvivenza è di circa 30 anni e continua ad aumentare significativamente di anno in anno. Oggi, abbiamo pazienti che hanno già superato i 60 ed anche i 70 anni. In Italia vivono oltre 4000 persone con fibrosi cistica, la metà delle quali di età adulta. La clinica e lo studio di questa patologia stanno facendo progressi impressionanti e imprevedibili e questo suggerisce un ragionevole e realistico ottimismo per il futuro.
Dunque, esistono già oggi delle cure per questa malattia?
Come nel caso di molte malattie ereditarie, attualmente non si può guarire dalla fibrosi cistica. Le persone affette possono però essere efficacemente curate. Se diagnosticata tempestivamente – subito dopo la nascita o prima di essa – questa malattia può essere tenuta sotto controllo in modo adeguato attraverso il monitoraggio delle infezioni polmonari e il mantenimento di una funzione polmonare adeguata (con la fisioterapia respiratoria) e di un adeguato livello nutrizionale. Si tratta di protocolli di trattamento specialistici e intensivi, disponibili presso centri specializzati presenti su tutto il territorio italiano. Il ricorso a queste cure ha determinato negli ultimi decenni un sorprendente miglioramento delle condizioni di vita dei bambini e degli adulti con fibrosi cistica, che oggi possono mangiare, giocare, studiare, lavorare, viaggiare e avere rapporti familiari e sociali in modo simile a quello dei loro coetanei. Posso citare, per esempio, il caso di Claudia, una studentessa universitaria affetta da fibrosi cistica, con numerosi amici e un fidanzato, che ha potuto recarsi negli Stati Uniti per uno stage di formazione della durata di un anno. Tuttavia, in alcuni casi, le manifestazioni polmonari della malattia possono limitare l’intensità e la durata dello svolgimento di alcune attività che richiedono un forte impegno fisico.
Che terapie deve fare chi ha la fibrosi cistica?
Il programma terapeutico viene personalizzato sulla base dell’età e delle caratteristiche cliniche del singolo paziente. Il programma può includere una fisioterapia respiratoria per aiutarli ad espellere il muco denso e viscoso che vi si accumula nei loro polmoni e tende ad occludere le vie respiratorie; una aerosolterapia con fluidificanti, antibiotici o farmaci antinfiammatori, per prevenire o combattere le infezioni respiratorie; e la somministrazione di enzimi pancreatici sotto forma di capsule, che, assunti regolarmente ad ogni pasto, favoriscono l’assorbimento dei componenti nutritivi (possono risultare appropriati anche integratori vitaminici e minerali per promuovere un buono stato nutrizionale). Un ruolo importante è anche quello di un regolare esercizio fisico e la pratica non agonistica di alcuni sport, come il nuoto, che aiuta a rafforzare i muscoli coinvolti nella respirazione. Solitamente, questi trattamenti possono essere effettuati a domicilio, senza necessità di ricovero ospedaliero, e praticati dallo stesso paziente o, nel caso dei bambini, dai loro genitori. I medici specialisti sono in grado di sviluppare protocolli di trattamento che forniscono i migliori risultati possibili tenuto conto del quadro clinico di ogni singolo paziente.
Quali ricerche aprono nuove prospettive per la terapia della fibrosi cistica?
Alla recente Conferenza Europea sulla Fibrosi Cistica, tenutasi a Dublino dal 6 al 9 giugno scorso, sono stati presentati i risultati di interessanti studi clinici con nuovi farmaci. Un farmaco, l’Ivacaftor, in corso di sperimentazione clinica, ha mostrato effetti positivi del farmaco in pazienti nei quali la malattia è causati da difetti genici particolari, come le mutazioni chiamate G551D e R117H. Ancora troppo preliminari per consentire una valutazione attendibile, sono gli studi sull’associazione dell’Ivacaftor ad un altro farmaco, il Lumicaftor, per il trattamento di pazienti con un’altra mutazione, la F508, che rappresenta circa il 50% dei difetti genetici che provocano la fibrosi cistica in Italia, Spagna e Grecia, e l’80-90% circa nelle popolazioni del Nord Europa (Danimarca, Olanda e Inghilterra). E’ ancora presto per dire se questa associazione di farmaci sarà vincente e diverrà terapia per i malati portatori mutazione più diffusa in Europa, ma ciò che i ricercatori hanno anticipato dei risultati di questi studi lascia intendere che siamo sulla strada buona. Altre sperimentazioni hanno fornito esiti meno incoraggianti, ma, si sa, la ricerca progredisce attraverso risultati positivi e negativi. Si impara comunque, sia dai successi che dagli insuccessi, a scegliere il metodo e i percorsi con maggiore probabilità di giungere all’esito atteso.
Un’ultima domanda. Come giudica la strada imboccata dalla procreazione medicalmente assistita verso una selezione degli embrioni affetti da fibrosi cistica o da altre malattie ereditarie e la recente sentenza della Corte di Strasburgo?
E’ una strada sbagliata. Sbagliata dal punto di vista medico, scientifico e umano. Lo scopo della medicina clinica è quello di guarire il paziente da una malattia. Se non è possibile guarirlo, in ogni caso curarlo, cioè, letteralmente “prendersi cura di lui”. Qualunque sia la sua condizione, in qualsiasi circostanza si trovi, dal concepimento all’agonia. Selezionare gli uomini e sopprimerli (prima o dopo la nascita) non è mai stata la vocazione di un medico degno di questo nome. La medicina nazista, sovietica e di altri regimi totalitari si è macchiata di delitti orrendi, condannati unanimemente, ed è in opposizione a tutte le pagine della storia della medicina. La giurisprudenza nazionale o internazionale non può cambiare la natura e lo scopo della medicina. Le scienze biomediche ci testimoniano che le malattie genetiche si posso combattere, che una strada esiste ed è percorribile, anche se lunga e faticosa. La ricerca sta compiendo passi da gigante verso la correzione di difetti morfologici e funzionali provocati da aberrazioni cromosomiche e mutazioni geniche. Senza facili ottimismi o illusioni demagogiche, possiamo oggi realisticamente affermare che vi sono buone ragioni per continuare sulla strada della ricerca di una terapia mirata e di nuove cure sintomatologiche per i malati di fibrosi cistica e di altre patologie ereditarie, una strada sulla quale siamo incoraggiati ogni giorno dai nostri stessi pazienti e dai loro familiari. Ancor più decisamente, vi è una ragione ultima per non arrenderci alla troppo sbrigativa soluzione della selezione preimpianto degli embrioni per la nascita di figli sani: la ricerca della salute di un uomo o di una donna, cosa in sé buona, non può mai avere condizione previa la soppressione della vita di un altro uomo o di un’altra donna, anche se solo all’inizio della loro esistenza, in sé sempre cattiva. E’ disumano, cioè contrario alla ragione e all’esperienza elementare di ciascuno di noi, affermare “mors tua salus mea”. L’uomo è fatto per la vita, non per la morte, né la propria né quella di un altro.
Infine, mi sia consentito ricordare un’affermazione che il professor Jérôme Lejeune, un grande medico e genetista francese che mi ha incoraggiato e seguito quando ho deciso di intraprendere i miei primi studi di genetica clinica e di cui è in corso il processo di beatificazione, amava ripetere ai suoi allievi: “Ce la faremo. Riusciremo a sconfiggere questa malattia. Ora dobbiamo prenderci cura di questi piccoli perché questo è il nostro compito, lo scopo del nostro lavoro”.