Che “Paradise Faith” faccia scandalo non è notizia. La notizia, grave!, sarebbe stata il contrario, che nessuno si fosse scandalizzato davanti alla storia di una povera malata in cui la fede raggiunge punte di distorsione che suscitano pena e tristezza in alcuni e scandalo in molti altri. Il regista ha voluto provocare gli spettatori, scartavetrarne non tanto la coscienza, quanto la sensibilità e la sensualità, caricando con tinte esagerate, stridenti e conflittive la storia di una povera malata.  



La protagonista è una donna in cui un bigottismo vecchia maniera, amplificato per farne una macchietta, la ridicolizza fin dagli inizi della storia: la moltiplicazioni delle immagini sacre di cui sente il bisogno di circondarsi, l’ossessione con cui vive la sua mortificazione, una sorta di marketing apostolico, che la spinge ad andare di casa in casa più che per aiutare le persone, per distribuire immagini sacre di scarsissima qualità e soprattutto lo scollamento tra una fede predicata e una carità mancata, come traspare dal rapporto con il marito mussulmano. Una donna in cui tutto appare sbagliato, fuori posto, irritante, come accade in quelle personalità immature ed irrisolte, che sono sempre alla ricerca di ciò che non hanno. Un paradiso magico che possa risolvere con un tratto di penna tutti i problemi, ignorando gli infiniti ostacoli che scandiscono la nostra strada verso la felicità. Tutto ciò non ha nulla dell’esperienza religiosa di chi cerca umilmente e coraggiosamente il rapporto con Dio, nella tranquilla esperienza della preghiera e del servizio verso gli altri, con la speranza di trovare alla fine della propria strada il Paradiso. 



Nel film sembra che si siano date appuntamento tutte le aberrazioni di una pietà che non cerca Dio ma solo se stessa, nella improbabile credenza che questo dio creato a propria immagine e somiglianza possa dare gioia e forse anche piacere, posta la caratura erotica che si è voluto aggiungere alla storia. Chissà cosa ha mosso il regista a scegliere questa caricatura della fede tra le moltissime storie possibili in cui ogni giorno tante persone cercano Dio, mettendosi in gioco in modi diversi, ma comunque dettati dalla tensione verso l’Assoluto, verso l’Infinito. C’è una nostalgia di Dio nel nostro tempo che sorprende tutti: credenti, non credenti e diversamente credenti. L’uomo ha bisogno di Dio e lo sperimenta di volta in volta con accenti diversi, ma sempre mosso da un’autenticità della ricerca che commuove e che convince. 



Invece in questo film il grande assente sembra proprio Dio, come se fin dalle prime battute si capisse che Dio non sta nelle immagini senza vita e senza amore, non sta in quella peregrinazione da una visita all’altro senza cuore, non sta nella petulanza di una predicazione priva di carità. 

E quindi non sta neppure nei gesti blasfemi del viraggio totale di comportamento, quando l’erotismo svela una sua intrinseca volgarità, per cui quel disprezzo verso il crocifisso, simboleggiato nello sputo non è altro che disprezzo di sé, segno di un fallimento esistenziale a tutto campo.

Ma per questo non c’era proprio bisogno che Venezia proponesse un film di questo tipo! sottoporre la fede di milioni di persone, che sperabilmente non andranno a vedere il film, a una sorta di profanazione del loro sensus fidei, è un’iniziativa decisamente di dubbio gusto. Né sembra che si possa definire il film un’opera d’arte, anche perché l’insignificanza del messaggio si mescola alla assoluta mancanza di speranza e di prospettiva umana e soprannaturale. La protagonista del film appare come una donna malata nell’anima, sola, anche perché sembra incapace di creare rapporti umani significativi, ma alla fine del film è ancora più sola per quella sensazione di estraneità che suscita negli spettatori; la dis-umanizzazione della sua sensualità, che altro non è che una affettività disintegrata, la sua violenza finale nel gesto di rabbioso rifiuto verso il crocefisso, sono una manifestazione del nichilismo imperate della nostra cultura. E la sensazione di vuoto esistenziale che la storia trasmette spaventa, allontana, disturba chi guarda, e francamente non sembra priorio che questo sia il senso dell’arte, neppure dell’arte cinematografica, che così facendo contribuisce a seppellire se stessa. 

L’uomo di oggi non ha bisogno di trovarsi a tu per tu con la morbosità di una fede fallita, perché è falsa fede in se stesso, nella propria drammatica fragilità e solitudine. Ha bisogno di qualcosa di ben più profondo e l’arte può dargli proprio ciò di cui ha bisogno: è la bellezza che salverà il mondo, diceva Dostoevskij ed è la bellezza che salverà il mondo ci ripete Benedetto XVI. Ma in questo caso di bello non sembra esserci nulla, e allora viene il dubbio che si sia trattata di una ennesima provocazione rivolta ai cristiani, alla loro fede, un ennesimo sberleffo, contando sul fatto che forse non reagiranno… o peggio ancora, dovranno misurarsi con qualcuno che cercherà di spiegare loro che questa è arte!