La pena inflitta è del tutto sproporzionata al fatto compiuto. E siamo d’accordo. Far scrivere ad un bambino sul quaderno 100 volte “sono un deficiente” non è certo una trovata geniale. Tanto più se si pensa che, così, in futuro non si comporterà più da bullo. Lo ha capito a sue spese l’insegnante della scuola media di Palermo condannata, per l’episodio, dalla Corte di Cassazione, a due anni di reclusione. Secondo i giudici, infatti, non si può rispondere al bullismo con «l’uso della violenza, fisica o psichica». D’accordo, hanno ragione. Ma il fatto, di per sé pienamente esecrabile, rivela, più in generale, ben più gravi afflizioni che segnano la scuola italiana.



IlSussidiario.net ne ha parlato con Marcello D’Orta. Secondo il quale, tanto per cominciare, in questa vicenda hanno sbagliato tutti. L’avvocato dell’insegnante: «l’ha buttata in discettazioni etimologiche. Deficiente, infatti, deriva da “deficere” ovvero “mancare”. L’insegnante, quindi, secondo il suo legale, intendeva semplicemente affermare che l’alunno era stato mancante nel non rendersi conto di quello che aveva fatto e per il quale era stato punito. Ora, chiunque si rende conto dell’ipocrisia: deficiente, nell’utilizzo comune, non può di certo essere definito come un semplice aggettivo. Era evidente, quindi, la volontà di offendere». I genitori: «Avrebbero dovuto, anzitutto, recarsi dal preside. E, insieme, andare dall’insegnante per chiarire la vicenda. O delegare il preside a prendere provvedimenti. Il che, ovviamente, rientra tra i suoi compiti». L’insegnante: «Metodi punitivi di questo genere risalgono, ormai, ad una cultura pedagogica obsoleta e archiviata. Stupisce che chi ha vinto un concorso, ha studiato e dovrebbe disporre di conoscenze di pedagogia generale, nell’ambito della sua classe si comporti come gli pare e piace». Il bambino: «se non si fosse comportato da bullo, non saremmo qui a parlare della vicenda».



Si era detto, inizialmente, che scrivere una frase del genere avrebbe potuto condizionarlo psicologicamente per tutta la vita. Poi, i giudici hanno deciso di eliminare l’aggravante di aver provocato in lui un disturbo del comportamento. «Non scherziamo – dice D’Orta. Il linguaggio e il rapporto tra alunni e insegnanti non è certo più quello di 40 anni fa. Anzitutto, i ragazzi sono ormai soliti apostrofarsi con parole di questo genere. Se, inoltre, un tempo l’offesa proveniente da un insegnante era percepita duramente, in ragione dell’autorevolezza riconosciuta a chi offendeva, oggi, semplicemente, di un insulto proveniente da una prof, i ragazzi se la ridono». Da tutto ciò, si evince un problema di natura estremamente più generale e preoccupante del caso di Palermo: «Al di là dell’episodio specifico, è evidente che, da parte degli insegnanti, c’è una perdita di autorevolezza enorme. Che io faccio risalire all’introduzione, nel 1974, dei decreti delegati. Prima di allora, il maestro o l’insegnante, in aula, effettivamente, dominavano, di fatto, incontrastati. Dopo, si introdussero criteri di democrazia interna di cui, pian piano, da parte dei genitori, si fece sempre più abuso». 



Ovvero «i genitori, secondo una errata concezione della difesa dei propri figli, hanno iniziato a contestare sempre di più tutte quelle decisioni degli insegnanti ritenute ingiuste, dal brutto voto alla bocciatura. Spesso, passando per le vie legali». Gli insegnanti, a un certo punto, hanno reagito. «Hanno iniziato a chiedersi: “ma chi me lo fa fare? Volete che i vostri figli siano tutti quanti promossi? Siete accontentati. Volete che siano degli ignoranti? Idem”. E così, purtroppo, la guerra tra insegnanti e genitori è diventata permanente».  

 

(Paolo Nessi)