La decisione presa ieri sull’ammissibilità del conflitto tra Presidenza della Repubblica e Procura di Palermo sulle intercettazioni delle telefonate tra il Presidente e il senatore Mancino può essere a ragione considerata come scontata, trattandosi del primo passo di un procedimento che si concluderà solo a novembre, quando la Consulta dirimerà il conflitto e aprirà la strada o al deposito delle sbobinature di dette intercettazioni o alla distruzione delle stesse senza una preventiva decisione circa la loro rilevanza per i processi in corso.
Entrambe le soluzioni presentano, come è noto, elementi problematici; nel primo caso infatti si rischia di compromettere l’immagine del Presidente della Repubblica il quale, come il monarca di statutaria memoria, non può far male e quindi non ha senso che sia coinvolto in processi o indagini almeno finché risulti protetto dalla permanenza in carica; nel secondo sono i diritti degli indagati a essere compromessi visto che gli stessi potrebbero trarre dalla conoscenza dei contenuti delle intercettazioni elementi per costruire la propria difesa.
Il caso si presenta come particolarmente problematico per la sostanziale anomia che caratterizza molti degli aspetti coinvolti nella controversia. Come si sa, infatti, nel nostro Paese manca il primo luogo una normativa sulle intercettazioni telefoniche, di cui si fa ampio uso a fin di bene, ma che spesso compromettono l’immagine degli intercettati (sia diretti sia indiretti) rendendo pubbliche opinioni contenute in frasi dette in privato, talora neppure influenti sulle indagini. Il che, tra l’altro, accade in molti casi in palese violazione del segreto istruttorio. Manca altresì, per le passate vicende, una legislazione in materia di reati commessi dalle alte cariche dello Stato, mai approvata perché ritenuta una legge ad personam.
In presenza di tali carenze, la controversia dovrà essere risolta sulla base di principi costituzionali, principi alti e fondamentali – non c’è dubbio – ma, proprio in quanto principi, necessariamente indeterminati. Essi saranno certamente sviscerati nel corso del procedimento, come già si evince dalla decisione della Presidenza della Repubblica che solleva il conflitto fondandolo sulla posizione costituzionale del Presidente desunta dalla sua sostanziale irresponsabilità giuridica, e concretizzati tramite un processo interpretativo che sarà convincente solo in quanto esaurientemente motivato, così da risultare immune da sospetti di partigianeria.
Questo la Corte Costituzionale dovrà fare: compito arduo in un Paese che, soprattutto tramite il suo sistema mediatico, semplicisticamente divide tutto tra buoni e cattivi a seconda della parte politica cui appartengono e che non sempre resiste alla tentazione di screditare le proprie istituzioni quasi fosse un problema di altri avere istituzioni screditate.
Compito molto arduo sul piano tecnico anche perché le sentenze rese in un recente passato sul caso Ruby sembravano aver fatto pendere il piatto della bilancia a favore del potere giudiziario, cui veniva riconosciuta una certa libertà di azione e di interpretazione.
Ma di questo discuteremo a sentenza resa. Ora si prenda atto della pur scontata ammissibilità, che ha accertato la presenza dei presupposti processuali perché il conflitto possa essere legittimamente instaurato, con ciò, almeno per il momento, facendo sì che tra i due contendenti, sia il ricorrente a segnare un primo punto di vantaggio in una partita che, comunque, non sarà né breve, né indolore.