Il 21 settembre di ventidue anni fa la mafia uccideva il magistrato Rosario Livatino. Aveva 38 anni: nonostante fosse diventato magistrato a soli 26 anni, giovanissimo, Livatino era già uno dei magistrati impegnati con Cosa Nostra più attivi e noti della Sicilia. Per questo venne ucciso mentre, a bordo della sua Ford Fiesta e senza scorta, si stava recando in tribunale. Una delle tante vittime della mafia, dunque, ma non solo: è infatti in corso un processo di beatificazione le cui testimonianze a favore si sono cominciate a raccogliere soltanto tre anni dopo la sua morte. Il 19 luglio dello scorso anno l’Arcivescovo di Agrigento ha firmato il decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione, aperto poi ufficialmente il 21 settembre del 2011. Perché questo fatto straordinario, per un magistrato? Lo ha spiegato a IlSussidiario.net Giuseppe Di Fazio: “Come padre Puglisi, anche lui ucciso dalla mafia, anche Rosario Livatino ha posto una riflessione: eroe o testimone di giustizia, addirittura martire della fede?”. Per Di Fazio Livatino “lega il suo lavoro a un nesso tra giustizia e fede, giustizia e verità, giustizia e carità e questo lo ha reso unico. In una pagina del suo diario aveva infatti scritto: rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione per Dio”.
Il nome di Livatino è legato a inchieste scottanti, ad esempio quella che poi venne definita tangentopoli siciliana.
Non solo la tangentopoli siciliana, ma soprattutto le inchieste sulla mafia dell’agrigentino e altre zone della regione e per questo motivo perse la vita. Diventò magistrato giovanissimo a 26 anni e fu ucciso che aveva solo 38 anni.
In cosa si caratterizzava la sua figura di magistrato?
La questione che si è posta con la sua figura di magistrato, così come con la figura di padre Puglisi è una riflessione che ha toccato l’opinione pubblica: è stato semplicemente un eroe o è stato un testimone della giustizia, addirittura un martire per la giustizia? Lui e Puglisi hanno aperto una questione di tipo teologico, se cioè si potesse parlare di martirio. Infatti c’è in corso una causa di beatificazione sia per Livatino che per padre Puglisi. Padre Puglisi sarà beatificato il 25 maggio prossimo, mentre per Livatino la causa sta facendo il suo corso.
Come spiega lei questa assoluta singolarità di Livatino?
Quando presta giuramento in magistratura e diventa difensore della giustizia, nel suo diario scrive: “Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo in cui l’educazione che i miei genitori mi hanno dato esige”. Lega cioè la sua fede all’impegno di magistrato, alla realizzazione della giustizia, come dirà in un altro punto del suo diario: “Rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione per Dio”. Lega il suo lavoro con un nesso tra giustizia e fede, giustizia e verità, giustizia e carità e questo lo rende unico.
Quale fu il motivo per cui si decise di ucciderlo?
Era conosciuto nell’ambiente come magistrato integerrimo e si era trovato per le mani alcune inchieste della procura di Agrigento. In seguito era diventato giudice a latere in alcuni processi di alta mafia. In tutto questo era sempre stato attento alla ricerca della verità, senza nessuna possibilità di lasciarsi comprare in vario modo. Questa sua integrità era la cosa che più dava fastidio ai soggetti che indagava. Questo aspetto però si legava a un altro aspetto: che nel fare il magistrato aveva sempre presente la persona del condannato.
Cioè?
Era giusto nel condannare ma attento a non confondere la persona con il reato. Aveva sempre una speciale attenzione alla persona, anche quella condannata, che rimaneva tale, cioè persona, anche dopo la condanna stessa.
Le testimonianze per la sua beatificazione si sono cominciate a raccogliere soltanto tre anni dopo la sua morte.
A questo proposito le racconto questo fatto. Proprio tre anni dopo la sua uccisione, nel 1993, viene in visita ad Agrigento Giovanni Paolo II. Nella sua visita chiede di poter visitare i genitori di Livatino e si intrattiene con loro circa 15 minuti. Rimane così profondamente toccato da questa conversazione che quell’appello rimasto famoso pronunciato proprio ad Agrigento, “uomini di mafia convertitevi perché verrà anche per voi il giudizio di Dio”, nasce a seguito di questo colloquio. Non era previsto, sgorgò direttamente dal cuore del Papa e nacque dopo quella conversazione con i genitori di Livatino.
Come viene ricordato oggi? Il suo nome non è molto citato tra quanti nella sua professione hanno perso la vita a causa della mafia.
Vale la pena ricordare questa cosa: nel 2005 al convengo della Chiesa italiana di Verona, a ogni regione era stato chiesto di portare un santo come emblema della regione o comunque un testimone della fede che potesse esprimere la regione. Fu significativo che la Chiesa siciliana chiedesse come simbolo del cristianesimo siciliano in quell’occasione non altri, ma Rosario Livatino, identificato dal popolo cattolico siciliano come testimone di fede che esprime un modo di vivere.