Chi ha più di vent’anni ricorda bene la storia della piccola Angela Celentano e quel cognome così importante ci è rimasto impresso: una delle tante vittime innocenti della follia, spesso della brutalità degli uomini, tra cui questi piccoli dovrebbero ricevere soltanto educazione e amore.  Ogni anno sono almeno 3 mila i minori che vengono rapiti, che si perdono (i bambini che si perdono da soli però si ritrovano in fretta) e se dopo un anno la percentuale si riduce di molto, sono sempre una sessantina almeno quelli che non tornano a casa mai più, e le cui esistenze restano sospese nel vuoto, nella speranza di un cenno, di un segno cui si aggrappa la tenacia indistruttibile dei familiari. A noi che leggiamo, alle forze dell’ordine che pure setacciano palmo a palmo il territorio la memoria si appanna, fatalmente, poco a poco, incalzati da nuovi fatti di cronaca, da nuove vite sospese e ansiose di suscitare la nostra attenzione, perché le ricerche proseguano, solerti, e si concludano con un abbraccio.



La piccola Angela, riccioli neri su un vestitino a righine rosa, il viso spaurito di chi non si adatta alla macchina fotografica – è questa l’immagine che ha fatto girare la famiglia e che ricordiamo – sparì durante una gita dei suoi cari sul Monte Faito, vicino a Napoli, 16 anni fa. Come sempre in questi casi l’assenza di spiegazioni, di tracce, generò ansia e turbamenti, resuscitò ataviche paure, fantasmi evocati dalla superstizione e dall’ignoranza. Gli zingari, gridò qualcuno rabbiosamente. La tratta della bianche. Sette sataniche. Un maniaco, e si temette per anni di trovare resti di un corpicino, con addosso l’oltraggio della violenza più turpe. Come sempre, in questi casi, la vita dei parenti viene passata al vaglio minuziosamente, scoprendo rancori e sospetti, rimestando sentimenti laceranti. Nulla, nulla ha portato a capire il come e il perché.



L’altra sera la famiglia, ospite per l’ennesima, dolorosa rievocazione del caso, ha confessato una pista, implorando che non venisse chiusa per sempre: una ragazza si è fatta viva con loro, ha l’età che avrebbe Angela oggi. Vive in Messico, ha mandato una foto. Non si chiama più Angela, ma Celeste. E’ mora, i suoi tratti sono comparabili, per la mamma, il papà, con la bambina scomparsa. Dice di aver saputo della storia, di essere stata abbandonata da una governante e essere stata adottata da una famiglia cui vuol bene. Per un po’ avrebbe parlato via mail con la sorella, Rosanna. Poi, il silenzio, preceduto da quel terribile “Non voglio che mi cerchiate più. Sono felice qui”. Immaginiamo lo strazio di quei genitori. La figlia perduta, poi forse ritrovata, che sparisce una volta per tutte, e nega a se stessa e ai suoi cari quegli sguardi, quei baci e quelle lacrime che sono umanissime e che avremmo voluto.



Incomprensibile. Davvero? Se è Angela, e non ne abbiamo la certezza, del suo passato conosce solo quel che ricorda, e ricorda il Messico, un papà, una mamma che l’hanno cresciuta. Se è Angela, e ha saputo ora delle sue origini, può non voler aprire un baratro dove può perdere la sua serenità, la sua quiete. Se è Angela, e non lo sappiamo, può  non essere così forte, può desiderare che la spensieratezza dei suoi vent’anni non venga turbata. Ha esitato, un attimo, perchè il richiamo del sangue non si nasconde: si è detta pronta a sostenere l’esame del dna. Poi ha chiuso il computer, ha cancellato ogni contatto, ha scelto. Chissà se per sempre. Perché quel richiamo può ancora farsi sentire. Per adesso, è giusto rincorrerla, sfondare una porta che lei ha deciso di chiudere, farle del male? Quanto negli anditi segreti della sua psiche deve aver già tanto sofferto, quella bambina. Capiamo i genitori, ma osino l’amore più grande. Non si può chieder loro la rassegnazione, non la dimenticanza. Ma la pazienza sì, per il bene che vogliono, che hanno sempre voluto, a quei riccioli neri. Non giudichiamola. Trovino il modo di parlarle, è una ragazza sveglia e con un desiderio grande nel cuore, o non li avrebbe cercati. Se vorrà, nel mistero prezioso della sua libertà, tornerà a farsi viva.