Caro direttore, che un giornalista non debba andare in galera per quel che scrive è cosa talmente ovvia che non varrebbe neppure la pena di discuterne. In un paese civile, il reato d’opinione prevede sanzioni pecuniarie, e libere opinioni a rettifica, in modo che i cittadini possano rendersi conto e decidere da che parte stare. E’ solo questione di buon senso, non è neppure il caso di scomodare la letteratura giuridica. Invece stiamo qui a esprimere sdegno e perfino qualche giustificazione all’assurda vicenda toccata al direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. Oggi sapremo se la Suprema Corte rinvierà l’udienza e il verdetto, data la richiesta dei legali della difesa dell’imputato.
Mi vien da ridere a definirlo così. Siamo abituati a vederlo in televisione, Sallusti, conosciamo la sua indole testarda e irriverente, il carattere duro. Uno che non le manda a dire. Ma pensarlo in carcere per 14 mesi in quanto socialmente pericoloso è fantasia che neppure è balenata in mente ai suoi più acerrimi nemici politici. Infatti lo assolvono tutti, giudicando il suo caso un’opportunità per eliminare dal codice penale un reato di memoria fascista. Proprio tutti tutti no, in nome dell’uguaglianza davanti alla legge! Un criterio che, esulando dalla persona che hai di fronte, è talmente disumano da non meritare commenti. Se c’è stato reato per Guareschi, per Iannuzzi eccetera, solo per citare i nomi più clamorosi, perché non Sallusti? Ma perché se è follia, signori miei, che ci si fermi, e magari proprio a partire da Sallusti.
Follia il reato, follia l’ostinazione del giudice diffamato, dopo aver già chiesto e ottenuto un risarcimento pecuniario non indifferente. Cosa vuole dimostrare? Che l’odio non ha fine? Che la giustizia è una macchina stritolatrice? Lo sappiamo, ahinoi. Che i magistrati possono avere un potere enorme e pericoloso? Sappiamo anche questo. E speriamo che forte e chiara, senza esitazioni, si levi la voce del Capo dello Stato, capo del Csm, a giudicare impropria la decisione della Corte d’Appello, che aveva ritenuto il giornalista pericoloso e quindi punibile con la reclusione. A placare quel giudice sdegnato. Se invece l’offesa merita il carcere, che sia la più alta autorità a dichiararlo, e toccherà star bene attenti a quel che si dice e si scrive, in questa povera Italia. Basterebbe una parola. E pazienza se qualche magistrato o qualche penna del Fatto lo riterrà un intervento a gamba tesa. In certe situazioni anche l’acrimonia ideologica va messa da parte.
Ricordiamo poi che il direttore de Il Giornale ha avuto e ha il fegato di assumersi una colpa non sua. Paga e si offre a bella posta in pasto ai media, all’opinione pubblica per suscitare una reazione: si parla infatti di un articolo comparso cinque anni fa su una testata che allora dirigeva, a firma di un collega di cui non ha mai svelato il nome. E questo gli fa onore.
Che diceva mai l’articolo incriminato? E’ così terribilmente inverecondo da non poter essere ripreso e commentato dopo tanti anni? Si parlava del caso di una ragazzina, tredici anni, costretta da un giudice ad abortire, contro il suo parere, sotto responsabilità dei genitori. Una ragazzina finita sotto cure psichiatriche, per lo choc subito, dopo la morte del suo bambino. Nell’articolo si usava la mano pesante: indegno il giudice e, se mai esistesse ancora, meritevole della stesa pena inflitta a un innocente, cioè la morte. Mi pare evidente il carattere provocatorio di questa affermazione. La pena di morte nel nostro paese non c’è, almeno ufficialmente (certe vite in carcere sono una morte lenta), e i congiuntivi, i condizionali e i periodi ipotetici avranno pur un valore nella nostra lingua. Si voleva suscitare scandalo, far riflettere su un abominio, nei pensieri dell’autore del pezzo. Una vita vale come un’altra vita. Sì, anche quella di un bambino mai nato.
Io ritengo che sia sbagliato e inutile, strategicamente, usare le spade infuocate per richiamare ragione e cuore di noi uomini del 2000 distratti, egoisti e così “adulti” da pensare di decidere delle nostre e altrui vite. Penso che la rabbia e l’orgoglio si addicessero allo spirito inquieto di una grande scrittrice, ma per ottenere ascolto e comprensione siano più sagge e proficue parole di moderazione. E’ possibile anche che l’articolo citato dicesse solo parzialmente il vero: che la ragazzina sia magari stata consigliata, e alla fine abbia deciso da sola. Si è così fragili, a 13 anni. E qualche volta l’indignazione monta, soprattutto se ci si accanisce contro i più inermi e deboli, e si perde il filo e si travalica la verità. Invece, come tante e tante volte è stato detto, hanno salvato dall’aborto più le cure e la paziente opera silenziosa del Movimento per la Vita che le battaglie urlate.
Diciamo pure allora che quell’articolo era parecchio sopra le righe, forse falso, e poteva partire la querela. Che ci stava una pena in denaro. Secondo me sarebbero bastate le scuse, o un’intervista sullo stesso giornale, e chiusa lì. Tu la pensi in un modo, mi hai insultato, sbagli. Ok, ho esagerato, ma credo che tu abbia sbagliato di più. I lettori giudicheranno. Ma il carcere! Al responsabile della macchina, che paga per frasi mai scritte. Pensate? Sono affari suoi. Ora, rimembrando i motivi per cui il caso Sallusti balza sulle prime pagine, mi piacerebbe vedere una partecipazione corale e ardente, decisa e non di circostanza, dei giornalisti cattolici tutti, dei politici cattolici, tutti, di qua e di là, delle organizzazioni, associazioni, movimenti cattolici.
Per carità, la difesa della vita non è questione di religione. Ma sono i cattolici ad avere sempre alzato la voce per ribadire che la vita vale sempre, dal concepimento alla morte naturale. Parliamo di libertà di stampa. Ma il tema ha uno spessore più grande, se rammentiamo di che si parlava. Vale la pena schierarsi con forza, anche se la fisionomia o certi articoli di Alessandro Sallusti non dovessero andarci a genio. Anche se avesse sbagliato a sua volta, per altre vicende. Proprio per questo. Chi difende la libertà difende anche quella del suo nemico. Difende anche la libertà di sbagliare. Sempre.