In questi giorni è tornata prepotentemente all’attenzione di tutti la questione dell’Ilva… peccato: pensavamo, dopo quei giorni roventi di luglio e agosto, di poter nuovamente assopirci relegandone agli addetti ai lavori la soluzione “equilibrata”. Invece, i fatti di questi ultimi giorni ci hanno costretto, nostro malgrado, a risvegliarci dal torpore.
Quest’estate un nostro amico, in vacanza in montagna con alcune persone della nostra città, ha detto che il “bubbone” Ilva scoppiato oggi era secondo lui l’esito di decenni di mancanza di fede. Ci sembra, per quanto l’affermazione possa sembrare eccessiva, che sia proprio così: chi, negli anni passati, ha difeso il lavoro, non ha pensato all’ambiente e alla salute; e chi, oggi, sta accanitamente difendendo ambiente e salute, non sembra preoccuparsi troppo del lavoro. Ma cosa c’entra la fede con questo discorso? Semplice: a ben guardare, ci è sempre sembrato normale e scontato che un nostro interesse – “legittimo” – dovesse escludere, per affermarsi, interessi “legittimi” altrui. Ovvero, abbiamo sempre fatto finta di ignorare che i vari interessi potevano, anzi, dovevano convivere.
Ad esempio, se io, come è ovvio, per i miei figli desidero tutto il bene possibile, perché non devo riconoscere lo stesso diritto al mio vicino che, per mantenere la famiglia, lavora all’Ilva? Il bene è solo la mia salute, o anche il tuo lavoro? Dio, quando ha creato me, ha creato anche te! E il mondo, per me, non è bello solo perché esistono i miei figli, ma anche perché esisti tu e la tua famiglia. Qualcuno può negare questo? Ma perché ce ne siamo scordati? E perché continuiamo a parlare e ad agire scordandoci, sempre più colpevolmente e con conseguenze sempre più gravi, di questo? Perché preliminari segnali di volontà di collaborazione da parte dell’Ilva stentano a trovare accoglienza e reciprocità in sede di decisioni ultime? Nella prospettiva vera di un bene comune si poteva, anzi si doveva, partire da quei 400 milioni di euro per iniziare a muovere insieme i primi passi di un cammino conveniente e proficuo per tutti, di cui tutti sentiamo la necessità.
La questione, evidentemente, è che questa necessità non è ancora realmente sentita, non è ancora fino in fondo parte di noi: abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a scrollarci di dosso la crosta di indifferenza e meschinità che ci avvolge, e che ci impedisce di tener conto e apprezzare tutti gli aspetti della realtà (salute, ambiente e lavoro in questo caso) senza escluderne alcuno.
Del resto, un invito autorevole in questa direzione è rivolto, su Il Messaggero di ieri, anche dal docente di Storia dell’industria dell’Università di Bari Federico Pirro, quando afferma a chiare lettere che un compromesso va necessariamente trovato. Il professor Pirro sottolinea anche che, stando ad una recente sentenza del Tribunale del riesame, la stessa gestione del sequestro degli impianti deve tener conto sia degli interessi dell’ambiente e della salute, sia della capacità produttiva dell’azienda e quindi dell’occupazione.
Ci fa piacere ricordare che, in questa ottica collaborativa, la voce da subito cordiale ed incisiva è stata quella dell’Arcivescovo mons. Filippo Santoro, che fin dall’inizio della vicenda ha richiamato una posizione aperta, ragionevole e realista: “Noi come Chiesa non abbiamo ricette, perché non ci sono. Il caso Ilva non è un problema locale di Taranto, ma nazionale ed europeo. (…) Questa è la più grande industria di acciaio di Europa, e ci lavorano 15 mila persone più l’indotto. Il problema è di tutta l’Italia perché con il caso Ilva si decide che sviluppo vogliamo, se ne vogliamo uno rispettoso dell’ambiente, della natura e dell’uomo. In un momento di crisi come questo, poi, se l’Ilva chiude ne risentirà tutta l’economia italiana” (dall’intervista a tempi.it del 1 agosto 2012). E ancora: “L’obiettivo che io ho sempre cerato di tenere insieme è quello del bene comune: il bene comune, in primo luogo, si schiera a difesa della vita e della salute perché la vita e la salute sono il primo bene. D’altro lato, vita e salute sarebbero minacciate da una disoccupazione di massa. (…) Come vescovo, io sono al lato di chi soffre, da una parte come dall’altra” (dall’intervista a Radio Vaticana del 21 settembre 2012).
Ci sembra che una posizione così sia desiderabile per ciascuno di noi, perché ciascuno di noi preferisce avere ‘tutto’ il bene possibile piuttosto che solo una parte di esso.
(Flaviana Ciocia e Paola Loffredo)