Sono passati trent’anni dal delitto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E anche su questa esecuzione mafiosa, sulla differenti interpretazioni sui mandanti di quel delitto, c’è posto per vecchie polemiche mai sopite. E’ in fondo giusto che, di fronte a quell’orrendo delitto, ognuno ricordi particolari e aspetti diversi della figura del generale e di quella  morte “in prima linea” avvenuta insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all’uomo di scorta Domenico Russo. Il 1982 appare oggi come un’epoca talmente lontana che le giuste commemorazioni di un grande protagonista della lotta contro il terrorismo e la mafia debbano necessariamente lasciare spazio alla ricostruzione dei fatti e  dell’azione complessiva dell’uomo e del generale, poi diventato prefetto di Palermo, come un “punto di riferimento” di autentico avamposto di fronte all’escalation mafiosa.



Non è certo il momento di immergersi solo nella ricostruzione storica. E’ indubbio tuttavia che il generale rimanga il personaggio, nella recente storia italiana, che ha impresso una svolta decisiva nella “guerra metropolitana” di una stagione infernale contro il terrorismo armato e ha dato un impulso importante, con la sua sola presenza a Palermo (un ritorno in fondo ai  tempi de “Il giorno della civetta”) contro la nuova ramificazione mafiosa dell’isola, il salto verso lo stragismo, la nuova strategia dei corleonesi.



Sembra quindi particolarmente centrata la dichiarazione commemorativa del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “Eccezionale servitore dello Stato, di comprovata esperienza operativa e investigativa, in Sicilia e in altre regioni, arricchita dagli straordinari risultati conseguiti nella lotta al terrorismo. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fu inviato nuovamente nell’isola prefetto della Provincia di Palermo, in una fase particolarmente difficile nella lotta alla mafia. La sua uccisione provocò un unanime moto di indignazione, cui seguì un più deciso e convergente impegno delle istituzioni e della società civile, che ha consentito di infliggere colpi sempre più duri alla criminalità organizzata, ai suoi interessi economici e ai suoi legami internazionali”.



Napolitano, in questo modo, salvaguarda soprattutto la figura di riferimento del generale, un difensore dello Stato e della legalità democratica, lasciando perdere i contrasti che ancora sono emersi ed emergeranno su tutti gli aspetti della morte del generale. Durante la commemorazione è stato Nando Dalla Chiesa, il figlio del generale, a spiegare: “Troppe volte ho avuto e continuo ad avere la sensazione che gran parte della politica sembra non essere interessata alla ricerca della verità e della giustizia, e soprattutto, cosa ancora più grave, sembra voler procedere a un’opera di rimozione del passato”. Nando Dalla Chiesa non si tira certo indietro nel puntare l’indice: “I mandanti (e gli esecutori) di Cosa nostra sono stati identificati, rimangono fuori i mandanti esterni”.

Anche il procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso, ha posto alcuni interrogativi inquietanti: “La causale del delitto non è ascrivibile direttamente alla mafia. Ma si può affermare che tutta la verità è stata accertata, che tutte le responsabilità sono state scoperte? Vi sono state tante domande rimaste senza risposta giudiziaria per cui si deve sempre tendere a svelare, anche dopo trenta anni, le trame e i misteri nascosti”.

L’accusa più esplicita che viene avanzata sulla morte è quella di uno Stato che ha lasciato solo il generale, quasi mandandolo allo sbaraglio. La risposta a questa accusa è venuta direttamente dall’ex ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, con un articolo scritto sul Corriere della Sera: “Si parlò e ancora si parla di solitudine di Dalla Chiesa, addebitandola allo Stato che lo avrebbe lasciato solo. Non è così. Il Governo, il presidente del Consiglio, l’amministrazione dell’Interno, lo hanno sempre sostenuto”. Di fronte a posizioni differenti è un bene, a nostro avviso, discutere e ricercare con grande scrupolo. Ma sarebbe un bene anche non fare di tutta un’erba un fascio, magari collegando l’uccisione di Dalla Chiesa alle attuali polemiche sui presunti rapporti e trattative tra “pezzi dello Stato e mafia”. Nella ricerca della verità ci si può e ci si deve anche scontrare, duramente, con argomentazioni diverse, ma l’effetto peggiore è quello del “polverone” che strumentalizza tutto  per interessi di bottega.

Non è certo questo il caso di Nando Dalla Chiesa e neppure del procuratore nazionale Antimafia. Ma che in questo trentesimo anniversario della morte si colga una volontà più di divisione che di autentico e partecipe ricordo non è solo un’impressione. Si coglie la voglia di imporre “una verità”, di presentare una “tesi” con grande schematismo. Sarebbe il modo peggiore di onorare la memoria di un grande servitore dello Stato come il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che, dopo la tragedia del “caso Moro”, ebbe la forza di dimostrare che l’Italia non era un Paese che si arrendeva alla deriva del terrorismo e della destabilizzazione.