Domenica c’è stata di nuovo battaglia, in Val Susa. Solo ieri abbiamo saputo che i manifestanti sono scesi fino al duomo della cittadina di augusta memoria (realmente, fu l’Imperatore a segnarne il tracciato), sono entrati in chiesa, hanno cercato di distribuire candelotti fumogeni e di arringare i fedeli che seguivano la Messa, sventolando le loro bandiere. Forse avrebbero voluto che il sacerdote dall’altare li benedisse e lanciasse la folla alla lotta. Il gesto blasfemo non scandalizza, è l’ultimo di una serie di attacchi a colpi di spranghe e bombe artigianali, e qualcuno forse ha già pagato con qualche pallottola la resistenza civile e ragionata alla rabbia.



Non è un caso che su tanti agit prop si concentrino le indagini della polizia e dei servizi, che si colleghino minacce e si individuino covi che delineano una rete d’azione che ha obiettivi più ambiziosi, e che ricordano anni non troppo lontani; non è un caso che il ministro dell’Interno segua con particolare apprensione le vicende valsusine, temendo il rinfocolarsi in quelle zone di azioni paramilitari allo scopo di destabilizzare il “sistema”, come dicono gli slogan, non solo di colpire il tunnel che dovrebbe scalare la montagna. Domenica hanno sfondato una chiesa, e allora? Dimostrazioni. Il trono e l’altare vanno insieme, si sa. E poi dicono che le ideologie sono morte. Si è indignato stavolta un politico del Pd, accortosi, guarda un po’, che questi manifestanti non sono tutti pacifisti, e si sono macchiati di un atto vergognoso. Nessuno scandalo, ci sono abituati ai gesti forti, in Val di Susa, la valle che resiste. Resiste ai trivellatori che vogliono deturparla, con un’opera mastodontica, costosissima, inutile, decisa senza consultare la popolazione? A un progresso che schiaccia, distrugge, umilia la determinazione della gente? Oppure, una valle che si interroga davanti a una scelta obbligata, in accordo con l’Europa intera, perché l’Alta Velocità non può essere interrotta per quei 50 km che introducono in Francia; davanti a una scelta, un’opera che potrebbe portare meno inquinamento, meno traffico, più posti di lavoro e introiti a comunità spesso depresse e prive di giovani, costretti a scapare per trovare il futuro. 

Sono anni che sentiamo le due campane e da anni non riusciamo a capire la verità, complice una propaganda che dall’una e dall’altra parte non aiuta a comprendere. Serve, la Tav? Se sì, perché l’esitazione del novello primo ministro francese, che a inizio luglio ha prospettato di interrompere i lavori? O era un’interpretazione fuorviante? Perché il novello paladino dei No tav ha appena stretto la mano di Monti, e insieme hanno annunciato che la Tav si farà tutta quanta, eccome, e che anzi, il prossimo bilaterale lo faranno a Lione, per seguire meglio i lavori. 

Non serve? Ma è possibile continuare a ingorgare una delle porte principali delle Alpi con il traffico su ruote, e costringere la principale arteria su ferro europea a incanalarsi su rotaie tra monti e pendii, come 50 anni fa? La Valsusa diventa un caso nazionale, internazionale, e i governi che si susseguono si rimpallano le lentezze e le indecisioni. Si può rimproverare di non aver reso partecipe la popolazione di vantaggi e svantaggi, e non aver lavorato per contenerli; questo è accaduto all’inizio, ed è ormai tanto tempo fa. Poi però si sono deviati i percorsi, si è aperta la concertazione con gli amministratori locali, con i valligiani. Che si sentono occupati dai No tav, e cominciano ad averne abbastanza.

Perchè questo è inaccettabile in un dibattito che potrebbe avere motivazioni e sbocchi: il continuo e organizzato ricorso alla violenza, all’intimidazione; il fatto che la Val Susa sia diventata l’imbuto in cui confluiscono agitatori e terroristi di mezza Europa. Col pretesto di difendere il paesaggio e la cultura montanara, approntano azioni di guerriglia, rendono quotidiane la paura e l’assedio, si scagliano, e non solo verbalmente, contro forze dell’ordine e chiunque, a loro giudizio, rappresenti il Potere. Quello con la maiuscola, così difficile da identificare che può essere identificato in chiunque. Il sindaco o il contadino che vuol coltivare il suo campo, l’operaio che tenta di fare il suo lavoro e pure il prete che tenta di placare gli animi.

Seguiteli, questi figli della borghesia che si fa capopolo per le mulattiere, mentre si arrampicano agili sui muretti a secco costruiti dai loro padri per tenere insieme la montagna; è facile, quando si è cresciuti tra aule universitarie e palestre, e i calli sulle mani al più sono venuti esercitandosi al free climbing.  E’ facile, scagliare pietre e lacrimogeni e insulti contro i poliziotti, sperando di coglierli in fallo all’ennesima provocazione. Non sono idealisti, non sono utopisti, questi giovani e non più giovani che si muovono secondo precise strategie: sono arrabbiati, e credono un diritto sfogare la propria rabbia. Meglio spaccare e urlare, che tirarsi su le maniche e costruire qualcosa. Meglio irridere e disprezzare quella chiesa che nei secoli è stata baluardo contro le invasioni, contro l’inciviltà, contro la dimenticanza. 

Nell’abbazia della Novalesa si copiavano i codici dei classici caparbiamente custoditi dai monaci: nella fortezza della Sacra di San Michele salivano in ginocchio i principi, per ascoltare i consigli degli abati e piegarsi alla loro saggezza. Ogni volta di sentiero, ogni collina è segnata da una croce, da un’edicola. Non sono state piazzate lì dalle gerarchie o con atti di forza dalla politica. Le hanno tirate su gli abitanti della valle, che ben sanno amare e temere la montagna e la natura tutta, da cui prendono vita e sciagure.

Certo che spiace, bucare panorami immutati da secoli; si dà l’addio a un mondo che scompare, e ogni generazione si è abituata a questi addii. Conta che la gente viva, che la valle viva, col rispetto e le garanzie di una politica al servizio del bene comune. Non schiava di particolarismi al servizio di altri, ben più invisibili e  pericolosi poteri.