La bimba continua ad avere uno sguardo tra il tenero e l’imbronciato. Il carcere da 4 anni non ha indurito, incattivito l’immagine di Anna Maria Franzoni: la madre che uccise il figlio Samuele, il piccolo Sami, una mattina di febbraio, con l’aria gelata, mentre in tutte le case di Cogne la gente beveva il caffelatte e i bimbi si apprestavano ad andare a scuola. Doveva salire sul pulmino anche il fratello più grande della famiglia Lorenzi, Davide, e la mamma ha sempre sostenuto di essere uscita per accompagnarlo: al rientro, lo strazio di un corpicino ansimante, la testolina sfondata, sangue dappertutto. Sami è spirato neanche un’ora dopo, portandosi in cielo la risposta. Chi poteva essere stato? In quei giorni concitati, nel tempo troppo lungo che seguì si pensò di tutto, da moventi passionali a sette sataniche. Tenacemente, la patriarcale famiglia allargata dei Franzoni fece muro, e architettò con sapienza un piano su larga scala, che utilizzava al meglio il sistema mediatico, per diffondere l’idea dell’innocenza della bimba, com’era chiamata la piccola di casa, Anna Maria.



Così triste e depressa, dopo la nascita del secondo bambino. Così protetta e coccolata, in casa, fino a perdonarle qualsiasi cosa. Anche l’assassinio del figlio, in un momento di follia? I salotti televisivi non hanno parlato d’altro, per anni. Abbiamo purtroppo conosciuto dai plastici la diposizione dei mobili della casetta di Cogne, sappiamo del turismo noir, ci siamo divisi tra innocentisti e colpevolisti. Anna Maria recita. No, è sincera. Una madre non può fingere così. Però col bambino moribondo, chiedeva al marito di farne in fretta un altro…però ha accusato ingiustamente i vicini di casa…però ci sono intercettazioni che la tradiscono…Ma l’arma del delitto? Introvabile. E lei non è matta, varie perizie, anche se tardive, accertano la sua salute mentale. E un po’ di depressione, via, ce l’hanno in tanti, non è una scusante per un assassinio. Ma gli avvocati di difesa si sono alternati uno dopo l’altro, tra polemiche e scaricabarile; e non si sono trovati altri colpevoli possibili, se non lei, la madre.



“Ci sono purtroppo madri che uccidono i figli”, disse la bimba come soprappensiero davanti a un poliziotto allibito. Da 4 anni Anna Maria è rinchiusa nel carcere della Dozza, sotto stretta sorveglianza; fa dei lavoretti, scrive lettere per le compagne di cella, suscita pietà. Dev’esserci qualcosa nella mente di quella povera donna che ha chiuso il passato, cancellato la memoria, si crede. La psichiatria dice di no, ma in pochi si ostinano a pensare che la recita possa durare tanto. Anna Maria ha ancora due figli: Davide, e Gioele, nato poco dopo la morte di quell’innocente. Vivono col papà, e la famiglia patriarcale li protegge, li cura. La madre può vederli una volta la settimana, in carcere. Ha già chiesto e richiesto di poter passare qualche giorno a casa, ogni tanto. Guardarli in un ambiente familiare, i suoi figli, togliere dai loro occhi la pena di una mamma dietro le sbarre, tacciata di una colpa terribile. Non le è stato accordato, e ancora una volta, su questo caso da manuale, ci si divide: è una tortura, tanto vale la morte; è giusto così, è ancora pericolosa. Eppure quando si tenta invano di scavare l’animo dell’uomo, non si può stare di qua o di là.



Anna Maria deve scontare in carcere 16 anni, con i vari sconti stabiliti, perché la pena iniziale era di trenta, una vita intera. Di questi 16, almeno la metà devono passare senza permessi di alcun tipo. Senza poter fare merenda nel tinello di casa coi suoi ragazzi, aiutarli a fare i compiti, dovranno passare ancora 4 anni almeno. Davide, che ne ha 17, sarà un uomo, forse vivrà lontano. Gioele sarà adolescente, e chissà se vorrà ancora passarci del tempo, con la madre. Può darsi che Anna Maria sia una Medea inquietante e di cui avere paura. Che i suoi figli non debbano vederla mai più, per non convivere con l’orrore. (Bisognerebbe chiederlo a loro, ne hanno diritto) E se lei invece fosse cambiata, o davvero non ricordasse più nulla, se non di essere divisa per sempre da chi ama? La giustizia non ha i modi per controllare, per accompagnare tra le mura domestiche una donna che vuol stare un po’ di tempo coi figli?

Ci si chiede che giustizia è quella che non permette una riabilitazione, una svolta, un cambiamento, E se questo può avvenire a comando, dopo tot anni e giorni, o non può essere prima. Certo, ci sono le regole. Ma ogni uomo è a sé, e le regole non possono essere sempre e solo vincoli per soffocarne il cuore. E’ facile cedere alla compassione, e facile farne occasione di inganno, di eccezioni che potrebbero diventare esempi destabilizzanti. Non siamo giudici o psicanalisti, che certo hanno potuto studiare e darsi ragione del caso Franzoni. Ma vorremmo che ai “no” decisi, per ottemperare alle regole qualche giudice si fermasse pensoso a chiedersi se è proprio giusto, se la vita non dev’essere fatta di eccezioni, perché ogni uomo è a sé, o se è proprio così, come pensano tutti. Con quello che ha fatto, buttiamo la chiave, dimentichiamola. O ritiriamola fuori quando tutti, compresi i suoi figli, l’avranno dimenticata. Chi può aver ancora voglia di vivere, di costruire qualcosa, di sperare, se il carcere dev’essere non un ‘occasione, ma una tomba?