Il ministro del Welfare, la signora Elsa Fornero, non ha certo responsabilità sul drammatico caso dell’Alcoa, ma potrebbe almeno risparmiarsi dichiarazioni che sembrano l’improbabile quadratura del cerchio. Fornero, si è detta “vicina a questi lavoratori che rischiano di perdere il lavoro”, salvo poi aggiungere: “sarebbe sbagliato dire che noi garantiremo il vostro posto di lavoro”. E poi ha precisato: “questo è un tema molto delicato ma la difesa dei singoli posti di lavoro, anche quando non erano più economicamente attivi ha portato in passato a gravi sprechi di risorse”. Il rigore innanzitutto, dunque. Ma il ministro non si è risparmiata un indiretto attacco alle vecchie partecipazioni statali, quelle che avranno pur provocato danni, ma hanno anche svolto una funzione da autentici ammortizzatori sociali in alcuni periodi della storia italiana. E alla fine sono state liquidate con una raffica di privatizzazioni negli anni Novanta che ancora gridano vendetta.
Ma come si fa a stare insieme a dei lavoratori, tre dei quali stanno attuando una protesta disperata, isolati a settanta metri d’altezza sul silos della loro fabbrica che sta chiudendo i battenti, e nello stesso tempo ricordare che non si può garantire il loro lavoro? Forse sarebbe stato meglio e più comprensibile il silenzio. E, anche nel silenzio, allo stesso tempo, sarebbe utile la messa in atto immediata, nel caso l’affare Alcoa dovesse finire male, di iniziative di carattere sociale, di sostegno reale per altri disoccupati. E’ mai possibile che la Cassa depositi e prestiti serva a tutto tranne che a iniziative di sostegno per l’occupazione, per il ricollocamento di lavoratori senza più un’occupazione?
La multinazionale americana che è proprietaria di Alcoa ha deciso di chiudere l’impianto di produzione dell’alluminio a Portovesne, in Sardegna, una zona della provincia di Carbonia-Iglesias, dove non è certo semplice trovare un posto di lavoro. Con la chiusura di Alcoa aumenta il plotone dei senza lavoro in Italia, non favorisce di certo il pil e tanto meno la prima, o seconda, fase della cosiddetta crescita, quella immaginaria che ogni tanto viene evocata.
Si dice, quasi con un filo di voce, che ci sono alcuni possibili acquirenti di Alcoa. Adesso si affaccia anche la svizzera Klesh che ha sede a Ginevra. Questa notizia è stata commentata con una certa durezza dal Governatore della Sardegna, Ugo Cappellacci. “Evidentemente non è impossibile trovare interlocutori interessati all’acquisto”, ha detto. Aggiungendo poi: “poiché risulta che questo interesse, reso noto solo adesso da fonti vicine all’esecutivo, in realtà risale all’8 giugno, viene da chiedersi chi avesse la lettera inviata dalla Klesh e chi si sia assunto la responsabilità di tenerla in cassaforte”.
Non conosciamo questi retroscena e quindi non azzardiamo nessun commento su questo accavallarsi di date. Ma c’è un altro fatto che viene in mente di fronte a questa drammatica protesta di tre uomini che sono diventati il “simbolo” della difesa del posto di lavoro nella fabbrica che è “anche loro”, come dicevano i vecchi socialisti riformisti di fine Ottocento, quando spiegavano agli operai che la fabbrica è anche “loro”, perché ci passano la maggior parte della giornata e della vita.
In tutta questa lunga crisi, la stessa che dura dal 2008 dopo l’esplosione della “bolla” dei subprime, abbiamo visto uomini d’affari, grandi manager, riservati banchieri muoversi con velocità e disinvoltura per salvaguardare il cosiddetto sistema finanziario internazionale e i bilanci delle banche e della grandi finanziarie. Senza neppure riconoscere i loro errori e magari tentare qualche piccola riforma. C’è chi si ricorda la settimana in cui fallì Lehman Brothers, quando alcuni uomini spiegarono ai rappresentanti del governo americano che “per salvare questo mondo ci occorrono, domani mattina, questo numero di miliardi di dollari”. Nella concomitante e immediatamente successiva crisi dei debiti sovrani, abbiamo visto governanti scrupolosamente attenti ai valori dello spread, pronti a intervenire con tassazioni selvagge i cittadini per mettere a posto i bilanci dello stato.
In più, le banche europee e italiane in crisi si sono potute tranquillamente finanziarie all’1% alla Banca centrale europea.
Probabilmente sono state tutte iniziative necessarie e utili, per carità, ma è azzardato affermare che c’è una sproporzione tra la voglia di salvataggio del sistema finanziario e quella della difesa dei posti di lavoro e della vita delle imprese?
Nessuno vuole rispolverare antiche ideologie di un passato anche terrificante, ma bisognerebbe almeno ricordare che “l’economia è nata perché serve agli uomini”. Un’economia che si preoccupa più della finanza e dei grandi scenari macroeconomici, piuttosto che della difesa dei posti di lavoro e degli uomini che lavorano, non è un’economia sana, ma un sistema drogato e malato, che si dimentica della persona, e anche delle singole persone. Ecco perché quei tre “poveri Cristi”, che stanno sul serbatoio della loro fabbrica per difendere il loro posto di lavoro e una vita dignitosa per la loro famiglia, meritano, a nostro parere, più rispetto e più attenzione che l’ossessione per il deficit, per lo stock del debito, per lo spread e per l’avanzo primario.