Da settimane Benedetto XVI continua a martellare su un unico essenziale concetto. Incarnazione. Incarnatio in latino. Nella carne, dentro la carne. “Il Verbo si fece carne” recita il prologo del Vangelo di Giovanni. Il più lirico tra i versi affidati dall’umanità alle pagine. Ma non è poesia. Ci pensa il Papa a mostrarne tutta la ruvida concretezza. “Carne”, spiega, con il tono da professore che non lo abbandona mai, è da intendersi all’uso ebraico.



Indica l’uomo nella sua integralità, tutto l’uomo, con i suoi umori, i suoi odori, la sua fisicità, i brandelli di tempo che lo spolpano e la miseria dei suoi limiti. Qualcosa di molto simile agli scalcinati personaggi dei drammi di Giovanni Testori, piuttosto che alle ieratiche figure di certa iconografia romantica. Tutto questo per dire che Dio tocca l’uomo nella sua realtà, nella condizione in cui è immerso. Un Dio che “assume su di sé la fatica e il peso della vita umana” e in cambio dona divinità. Uno scambio impari. In cui l’uomo ha tutto da guadagnare. Quello che interessa al vecchio Ratzinger è proprio far comprendere la posta in gioco. “Il Verbo si fece carne” è una di quelle verità a cui siamo così abituati da quasi non farci più caso. E invece, invita il Papa, sarebbe opportuno recuperare lo stupore di fronte ad un Mistero che è all’origine di ogni pretesa cristiana.



Bisognerebbe nuovamente “lasciarsi avvolgere dalla grandezza di questo evento” per cui “Dio, il vero Dio, Creatore di tutto” percorre le strade dell’uomo, entra nel tempo, e comunica la sua vita eterna. Nel 2000 visitavo uno degli eremi fondati da don Divo Barsotti, grande mistico del 900, tra le colline alle porte di Firenze. Curiosavo nelle vite dei monaci raccolti intorno al grande vecchio, in una vita dai ritmi e dai bisogni elementari. E in cucina, mentre ponevo domande presuntuose su Dio e il suo Volto, un giovanissimo monaco, alle prese con la pelatura delle pere per il dolce della sera, mi disse radioso che Cristo era con lui mentre sbucciava la frutta. Le sue mani tremavano mentre mi parlava. Non c’era esitazione, né timore, solo trepidazione per un Mistero che si faceva davanti ai suoi occhi, per un Dio che entrava in ogni situazione anche la più umile. 



Incarnazione appunto. Qualche anno dopo mi è tornato alla mente quell’episodio leggendo il racconto della conversione del filosofo francese di origine ebraica, Fabrice Hadjadj, folgorato, nel refettorio dell’abbazia di Saint-Pierre a Solesmes, da un raggio di sole che giocava con il suo bicchiere colmo d’acqua. Quello che mi colpì era il fatto che Hadjadj aveva riconosciuto nella marca del bicchiere una memoria della sua infanzia, e che la contemplazione di quell’istante perfetto aveva rivelato il segno di un’altra infanzia, “quella che vede tutte le cose bagnate dalla tenerezza del Padre”.

Ancora incarnazione. Non so cosa Benedetto XVI avesse in mente oggi. Sono certa però che la coscienza che possiede della realtà è molto simile a quella del monaco e di Hadjadj. Ed è quello che vorrebbe per la sua chiesa: la consapevolezza di un dono bellissimo e gratuito fatto all’umanità da un Dio che non si limita a parlare tramite i profeti e le scritture, ma si immerge nella nostra vita.

Il Papa lo definisce “l’inaudito realismo dell’amore divino”: Dio che si fa veramente uomo, nasce dal ventre di Maria tra vischiosità e sangue, cresce con una mamma e un papà, ha degli amici, con cui mangia e beve, e poi dei discepoli, inizia la sua missione per finire sulla Croce. Il suo agire interroga la nostra fede e il suo realismo provoca. Benedetto XVI non vuole cristiani tiepidi, lo ha già dichiarato, ma neanche sentimentali o emotivi. Piuttosto uomini dalla fede reale, capaci di vivere il Vangelo nella concretissima vita.