Secondo una ricerca dell’Institution of mechanical engineers (Ime), tra il 30 e il 50% del cibo prodotto nel mondo finisce sprecato. Un totale di 2 miliardi di tonnellate che non è consumato e va direttamente nei rifiuti. Ilsussidiario.net ha intervistato Paola Garrone, docente di Economia e organizzazione aziendale al Politecnico di Milano e coautrice dell’indagine “Dar da mangiare agli affamati. Le eccedenze alimentari come opportunità”, condotta da Fondazione per la Sussidiarietà e Politecnico di Milano in collaborazione con Nielsen.
Dalla sua ricerca sugli sprechi emergono le stesse percentuali evidenziate dall’Institution of mechanical engeneers?
La stima secondo cui tra il 30 e il 50% degli alimenti nel mondo finirebbero nella spazzatura, risale a una ricerca di quasi due anni fa. Nel febbraio 2011 è uscito un rapporto, presentato dall’Economist, contenente queste statistiche. Su questo rapporto desidero fare tre considerazioni. In primo luogo, bisogna distinguere i Paesi in via di sviluppo da quelli avanzati come l’Italia. Il 30-50% è una media globale che include entrambi. Nei Paesi in via di sviluppo per quanto riguarda i prodotti agricoli c’è un grande livello di spreco, in primo luogo perché mancano le infrastrutture per la conservazione, come silos e magazzini, e quindi insetti e roditori consumano una parte significativa delle scorte.
Qual è quindi la percentuale di sprechi in Occidente?
In Italia c’e’ uno spreco di cibo che, stando al nostro studio, si attesta al 16%. E’ possibile che la stima 30-50% comprenda, oltre a prodotti commestibili, prodotti non recuperabili, come scarti, bucce…
Quali sono i valori assoluti?
A livello italiano 5,5 milioni di tonnellate sono sprecate (il famoso 16%), dai campi alle case. Non sono quindi i cibi che le famiglie italiane buttano via al pranzo di Natale, ma una cifra complessiva che include lo spreco nell’agricoltura, nell’industria alimentare, nella distribuzione, nei ristoranti, fino alle nostre case. Di questi 5,5 milioni di tonnellate, ne sono sprecati 2 milioni nelle case dalle famiglie e dai consumatori. Gli altri 3,5 milioni sono invece buttati nei campi, nella distribuzione e nell’industria alimentare. Si tratta comunque di sprechi elevati, ma non così tanto come sembrerebbe dai dati riportati dall’Economist, almeno ovviamente per quanto riguarda il nostro Paese.
Per quali motivi in tempi di crisi questa quota di sprechi non si riduce?
Dalla nostra indagine è emerso che le famiglie italiane, in misura non piccola, si danno comunque da fare per ridurre gli sprechi. Per esempio emerge che il 36% delle famiglie fa la spesa attentamente e una percentuale molto significativa consuma regolarmente gli avanzi. Sicuramente nell’educazione alimentare delle famiglie si potrebbe fare di più, e le nostre stime relative al 2011 potrebbero essere rifatte oggi a due anni di distanza, con la crisi che si è aggravata. Una parte dello spreco risulta per esempio da abitudini di spesa, per cui si acquistano dei prodotti che poi vanno a male. A noi comunque non risultava che, già prima dell’ultima crisi, in maniera generalizzata le famiglie italiane fossero delle sprecone.
Che cosa si può fare per ridurre comunque questi sprechi?
Non tutto il sovrappiù alimentare si può recuperare, e quindi in certi casi è più facile che divenga spreco. Ci sono dei settori, come una parte dell’industria agroalimentare, che ha già un livello significativo di recupero, e quindi di donazione ai bisognosi. Qui c’è una buona recuperabilità, cioè c’è meno impegno richiesto per recuperare quanto non è venduto dalle imprese manifatturiere e recuperarlo. Si tratta di un compito più semplice per quegli alimenti che sono prodotti a temperatura ambiente, come la pasta. Mentre il discorso è abbastanza diverso per i punti vendita dei supermercati, dove spesso la data di scadenza è molto vicina e si riesce a recuperare di meno. Allo stesso modo, una parte dello spreco che avviene in agricoltura o nei piccoli ristoranti non è di immediato recupero.
In quali settori si può intervenire per recuperare le derrate alimentari?
Nei segmenti di mercato con una buona recuperabilità, come la produzione a temperatura ambiente del manifatturiero agroalimentare, o i grandi centri di magazzini interni alla grande distribuzione, ci sono già delle buone pratiche. Il 50% di ciò che avanza è già recuperato e si tratta soltanto di diffondere queste buone pratiche. Ci sono invece segmenti più intermedi, come l’ortofrutta e i produttori di cibo surgelato o refrigerato, i punti vendita della grande distribuzione e i ristoranti, dove è recuperato ancora troppo poco. Occorre quindi dare spazio ai soggetti come il Banco alimentare, che favoriscono questo recupero.
(Pietro Vernizzi)